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economia

Vivere in una nazione ricca non è garanzia di maggior felicità. Come stanno i quindicenni di oggi?

 

 

Unicef ha provato a misurare il benessere percepito dagli adolescenti di 41 paesi del mondo e se ne evince che tre ragazzi quindicenni su quattro dichiarano di essere tutto sommato soddisfatti della propria vita. L’Italia si trova a metà classifica, collocandosi al 19mo posto. Rispetto alla media dell’area Ocse presentiamo tassi molto bassi di suicidio fra gli adolescenti fra i 15 e i 19 anni: 2,5 ogni 100 mila ragazzi. In Nuova Zelanda, per fare un paragone, siamo sui 14 suicidi per 100 mila ragazzi. Su questo mostriamo tassi simili a Francia e Spagna, mentre fra i ragazzini tedeschi i suicidi sono 4,4 su 100 mila adolescenti.

I nostri giovani stanno bene dal punto di vista psicologico rispetto al resto dei paesi esaminati (siamo al nono posto come salute mentale), mentre dal punto di vista fisico c’è da lavorare: ci collochiamo al 31mo posto su 38.

 

Nel complesso quello che emerge da questa ricerca – che si basa per lo più sui dati della grande raccolta periodica di dati sulla salute degli adolescenti che va sotto il nome di Health Behaviour in School-aged Children (HBSC) – è che vivere in una nazione ricca non è garanzia di maggior felicità.  Tendenzialmente i bambini nei paesi nordici hanno generalmente i tassi di benessere più alti, anche se fra i paesi con le percentuali più alte di giovani soddisfatti troviamo paesi come il Messico e la Romania. Nella maggior parte dei paesi dalle economie complessivamente “avanzate” più di due ragazzini su cinque non sono contenti del proprio fisico, o perché si vedono troppo grassi o perché troppo magri. In Italia il 27% degli adolescenti di 11, 13 e 15 anni si vede in sovrappeso o obeso, e il 13% si percepisce come troppo magro. Portogallo, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria e Germania hanno percentuali complessive di insoddisfazione ben superiori del 45% medio.  Le ragazze, in particolare, sono inclini a pensare di essere in sovrappeso anche quando non lo sono. Molti ragazzini soffrono di stress, ansia e depressione, sono in ritardo rispetto ai loro coetanei a scuola.

 

I bambini che riportano una bassa soddisfazione della vita avevano una probabilità otto volte maggiore di segnalare conflitti familiari, una probabilità cinque volte maggiore dei ragazzini più soddisfatti di essere vittime di bullismo e più del doppio di probabilità di non voler continuare la scuola. Quasi un quarto dei bambini che non si dicono soddisfatti ha affermato di non sentirsi al sicuro a casa propria.

 

Questo genere di ricerche sono importanti perché ci danno il polso della situazione complessiva, ma dobbiamo sempre partire dal presupposto – come lettori e come analisti – che nessun paese ricco è completamente bene-stante (sì, il trattino non è un refuso). Anche all’interno di un’economia classificata statisticamente come “avvantaggiata” ci sono segmenti di popolazione più o meno ampi che non lo sono affatto. Un documento dell’OCSE pubblicato a fine 2018 dal titolo “Poor Children in rich countries” fa il punto della situazione. Anche nei paesi ricchi sta aumentando la povertà infantile: in circa due terzi dei paesi analizzati, almeno alcune categorie di famiglie a basso reddito sono diventate più povere a seguito della crisi economica del 2008.

L’Italia fa parte delle economie avanzate con la maggiore quota di bambini poveri. Circa il 18% dei minori vive in famiglie un reddito equivalente al netto delle imposte e dei trasferimenti inferiore al 50% del reddito mediano nazionale annuo.

Un modo per misurare la povertà educativa e la salute è per esempio considerare  i gradienti socioeconomici, come il reddito familiare, il livello di educazione dei genitori, le infrastrutture presenti fra centri urbani e periferie (scuole, mezzi pubblici, attività ricreative). Indicatori che dovrebbero comparire come variabile differenziata in ogni statistica che viene pubblicata sull’argomento.

 

A fine 2019  Save The Children pubblicava la nuova edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio. Un bambino romano su quattro, 88.900 ragazzi, vive in aree di origine abusiva. Quartieri come Scampia, Piscignola, Miano,Mercato, Pendino, San Giovanni a Teduccio, Ponticelli, San Pietro a Patierno, presentano un indicatore di vulnerabilità sociale e materiale da 111 a 121, contro quartieri intorno a 90.

Si chiamano periferie ‘demix’ le aree urbane dove mancano una o più variabili fondamentali per considerare l’area “funzionale” in termini di servizi urbani: attività culturali, sociali, sportive, infrastrutturali e di riqualificazione urbana. In altre parole: quartieri dormitorio.
Grazie alla mappa dettagliata delle aree occupate da edilizia popolare a Roma elaborata dall’OsservatorioCasaRoma, Save the Children è riuscito a ricostruire parzialmente la panoramica del fenomeno: a Roma la quota di minori è più alta fuori dal raccordo e sarebbero almeno 15.800 i bambini con meno di 14 anni che vivrebbero in affitto nei quartieri a forte concentrazione popolare.

 

Sempre nel 2019  il MiBACT ha pubblicato https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/07/01/quanto-poco-funzionali-periferie-italiane/  l’Atlante delle Periferie Funzionali, con dati aggiornati alla fine del 2016, che ha esaminato nove città metropolitane (esclusa Roma) – Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Torino, e Venezia – sezione per sezione, comparto per comparto, per capire come si articola questa rarefazione dell’effetto città. Nel complesso per tutte le città si osserva un gradiente impietoso, sia che si parli di cultura, che di servizi per il tempo libero, che di progetti di riqualificazione urbana.

Anche nell’operosa Milano, 4 bambini su 10 (un totale di ben 68 mila) vivono in aree che non attraggono flussi pendolari, mentre a Roma a vivere in questo modo sono 7 ragazzi su 10 con meno di 14 anni.