La parola è brutta ma rende bene l’idea: datizzati, che sarebbe un tentativo di italianizzazione di datified. Quanto siamo datizzati? Cioè quanto è nitida l’impronta digitale della nostra vita che concediamo più o meno volontariamente a istituzioni, società e aziende private in cambio di servizi più o meno indispensabili? La risposta è soggettiva ma non per le nuove generazioni. Perché con il Covid-19 la raccolta di dati ha subìto una accelerazione senza precedenti. E le conseguenze dirette le imparerà a conoscere chi oggi è più giovane, più debole e meno informato.
Per usare le parole delle Autorità Garante per l’Infanzia inglese, le nuove generazione sono la prime datizzate dalla nascita. Come spesso accade, più di un Grande Fratello che vede, misura e registra tutto siamo di fronte a un gigantesco concorso di colpe che ha per protagonisti le istituzioni, i genitori e una drammatica mancanza di cultura digitale collettiva. La prima raccolta dati – strano a dirsi – inizia con la prima poppata. Il digitale in questo caso non c’entra. Molto spesso i neogenitori tengono traccia delle prime settimane di vita del neonato su un quaderno di carta segnando giorno per giorno le ore di sonno, stato delle feci, quantitativo di latte, pannolini cambiati, ecc. Articolo integrale su 24+ edizione premium del Sole 24 Ore.