Dopo la grande crisi economica del 2008 la disuguaglianza globale dei redditi è comunque continuata a diminuire come aveva fatto anche negli anni precedenti, mostra un recente studio preliminare dell’economista Branko Milanovic, ma con importanti variazioni all’interno delle singole nazioni che talvolta hanno preso una strada diversa. A cominciare dalla stessa Italia, dove invece la disuguaglianza appare cresciuta.
I dati arrivano dall’analisi di uno dei più completi set di informazioni sui redditi delle persone di oltre 130 paesi, esteso di recente fino a comprendere le statistiche del 2013, e suggeriscono che nei cinque anni analizzati a livello mondiale la distribuzione dei redditi si è fatta meno disuguale. L’indicatore più comune usato per misurare questo genere di fenomeni, benché non l’unico, è l’indice di Gini: un valore che in questo contesto esprime quanto i redditi sono concentrati o al contrario dispersi all’interno della popolazione. I calcoli preliminari dello studio mostrano che esso è passato dal 66,4% del 2008 al 61,6% del 2013.
Raccontato soltanto in questa termini il cambiamento può essere difficile da figurare, per cui conviene ragionare in termini di redditi veri e propri in varie aree del pianeta. A livello globale, si legge, il reddito mediano è passato da 1.674 a 2.708 dollari. Si tratta del valore che otteniamo mettendo in fila tutte le persone di cui abbiamo a disposizione dati, dalla più povera alla più ricca, e scegliendo quella esattamente in mezzo al gruppo.
Le grandi variazioni che osserviamo nella disuguaglianza globale derivano in buona parte parte dal miglioramento delle condizioni di vita in Asia e soprattutto in Cina, che da sola (si fa per dire, dati i suoi circa 1,4 miliardi di abitanti) è valsa la metà del calo generale della disuguaglianza dei redditi. In quel continente nel complesso il reddito mediano cresciuto molto in cinque anni mentre allo stesso tempo si riducevano le disuguaglianze. Bisogna comunque ricordare che lì si partiva da un livello di sviluppo ben minore rispetto ai paesi più ricchi, con un reddito mediano passato da circa 1.250 a 2.200 dollari: valore che nel complesso in Europa occidentale, nord America e Oceania ha un valore mediano sui 15mila dollari.
In queste ultime aree, che rappresentano il nucleo dei paesi più sviluppati, a fronte di una modesta crescita del reddito mediano (passato da 14mila a 15mila dollari, con in mezzo appunto la grande recessione del 2008-9) troviamo una disuguaglianza dei redditi stabile o in leggerissimo calo, con qualcosa di simile che sembra essere accaduto anche in Africa (che resta ancora molto indietro sia come livello di reddito che come crescita, persino se confrontata con l’Asia), America Latina ed Europa dell’est.
La storia complessiva, dunque, è che i cinesi (e, benché più lentamente, gli indiani) stanno recuperando il divario con l’occidente avanzato, e questo porta a un minore livello di disuguaglianza rispetto a un mondo in cui quasi tutta l’Asia era estremamente povera, com’è stato il caso di tutta la storia recente fino a pochi decenni fa.
Queste sono pennellate di grana molto grossa, che mettendo nello stesso calderone letteralmente miliardi di persone non sempre rendono bene conto di situazioni più locali. Che la disuguaglianza dei redditi sia rimasta tutto sommato stabile nelle nazioni sviluppate non vuol dire che sia andata ovunque allo stesso modo, e in effetti secondo quando riporta lo studio proprio l’Italia rappresenta una delle poche eccezioni.
Fra i paesi più ricchi, si legge, diciotto non hanno avuto variazioni sostanziali, in uno (l’Islanda) l’indice di Gini è diminuito di almeno tre punti, mentre in altre cinque nazioni esso è andato nell’altro verso, ovvero con un aumento della disuguaglianza misurato da un aumento di almeno tre punti nell’indice di Gini.
Fra queste ultime ci sono alcune nazioni molto piccole come Cipro o Lussemburgo, ma anche Austria, Spagna e la stessa Italia. Nel nostro paese l’indiziato principale per questo cambiamento è la differenza fra giovani e anziani: sui primi e sulle prime è ricaduto, in larghissima parte, il peso della recessione economica del 2008 e la spaccatura fra loro e chi era più in avanti con l’età si è ampliata a livelli enormi.
Come si inserisce l’epidemia di Covid-19 in questo contesto?
Milanovic sottolinea che è troppo presto per capire quali saranno gli effetti economici della pandemia, perché non sappiamo ancora quanto dureranno gli effetti economici negativi né la loro intensità. Si può al massimo fare qualche ipotesi, basata su come le varie nazioni stanno gestendo la diffusione della malattia.
Nonostante la Cina sia stata il luogo di origine del nuovo coronavirus, infatti, le draconiane misure di contenimento hanno consentito di bloccarne la diffusione, e dopo il primo grande evento della provincia dello Hubei tutti gli altri focolai comparsi nella nazione sono stati attaccati aggressivamente e non hanno provocato gravi conseguenze. Anche altre nazioni asiatiche come Corea del Sud, e Giappone, pur con una diversità di approcci, sono riuscite a limitare i danni e mantenere al minimo il numero di morti. Il contrario è successo invece in tanti altri paesi occidentali, a cominciare dalla stessa Italia, dove le misure dei governi e il comportamento dei cittadini non sono stati sufficienti a frenare il contagio, così da rendere spesso inevitabile una misura estrema come il lockdown generale nazionale.
Poiché in buona parte le disuguaglianze globali sono guidate da quanto accade nelle nazioni sviluppate e in Cina, lo studio sottolinea che “le prime stime plausibili del Pil indicano un proseguimento del gap di crescita fra Cina e ovest”, a intendere che la prima economia potrebbe risentire molto meno del secondo degli effetti dell’epidemia, continuare a crescere ben più rapidamente e dunque ridurre ancora le differenze di reddito.
Più complicata, si legge ancora, è invece la situazione di nazioni a reddito basso e medio come India, Brasile, Congo, Indonesia, e così via. Se la loro crescita dovesse rallentare o addirittura invertirsi, portandole in recessione, la convergenza con le nazioni ricche potrebbe interrompersi. In questo senso il ruolo dell’India è cruciale. Come secondo paese più popoloso al mondo, un filo dietro la Cina, pesa moltissimo sulle disuguaglianze globali ma rispetto all’altro paese già prima dell’arrivo della pandemia aveva certamente seguito un percorso più difficoltoso e una crescita meno rapida. La gestione dell’epidemia non è stata buona, come anche in Brasile, con un gran numero di casi confermati e probabilmente moltissimi mai neppure scoperti.
D’altra parte le conseguenze sulle economie occidentali, per quanto ancora non sappiamo esattamente quanto, saranno certamente pesantissime. A seconda di come questi equilibri si bilanceranno, potremmo persino trovarci in una situazione paradossale in cui la disuguaglianza magari cala ma soltanto perché molti – per quanto in misura diversa – stanno peggio di prima.