In un articolo precedente abbiamo raccontato come l’epidemia di Covid-19 abbia peggiorato in maniera significativa la salute psicologica delle persone, e di italiani e in italiane in particolare – come è accaduto in diverse fra le aree più colpite dal virus.
“Durante eventi epidemici”, ricorda un rapporto del gruppo di lavoro sulla salute mentale dell’Istituto Superiore di Sanità, “vi è un elevato rischio di sviluppare disturbi d’ansia, depressione”, comportamenti aggressivi verso sé stessi e gli altri, fino a “condotte suicidarie”. Allo stesso tempo “le misure di contrasto [al virus] si associano a maggior rischio di abuso di alcool e sostanze, violenza domestica, e abusi sui minori. Aumentano inoltre vari fattori di rischio psicosociale come stress economico, disoccupazione, lutto, perdita del ruolo e del lavoro, rottura delle relazioni”.
Cosa si può fare per rispondere?
Il gruppo di lavoro ha proposto un programma di interventi, perché se da un lato alcune misure radicali come grandi lockdown possono diventare inevitabili per evitare un enorme numero di morti e il sovraccarico del sistema sanitario, esse hanno inevitabilmente anche conseguenze sulla salute mentale della popolazione.
Queste misure di chiusura estrema, è bene ricordarlo, non sono sempre inevitabili ma lo diventano in assenza di politiche che riescano a tenere bassa la circolazione del virus per lunghi periodi, come per esempio è stato il caso di nazioni tra cui il Giappone o la Corea del Sud. Quest’ultima, per fare un confronto, ha avuto in totale un numero di morti minore di un giorno qualsiasi in Italia negli ultimi tempi.
Il programma auspicato dal gruppo di lavoro mira a “fornire strumenti e procedure per il monitoraggio e la sorveglianza spazio-temporale dei sintomi di sofferenza mentale e dei disturbi psichiatrici collegati alla pandemia” e promuovere “la salute mentale della popolazione mediante l’adozione di stili di vita corretti e l’applicazione di tecniche di fronteggiamento dei problemi psicosociali”.
Vengono proposte due aree di intervento, simultanee, base anche sull’esperienza cinese: una relativa alla paura della malattia, l’altra di adattamento della situazione. “Oltre a questi due interventi, che hanno richiesto l’integrazione con operatori sociali anche appartenenti ad associazioni di volontariato, vi sono stati quelli per la popolazione ad alto rischio che include i soccorritori e le persone con particolare vulnerabilità bio-psico-sociale esposte all’epidemia. Si è evidenziata la necessità di collaborazione con le associazioni di volontariato, le associazioni professionali, gli enti locali e le categorie produttive, e la costruzione di protocolli e procedure sinergici e intersettoriali allo scopo di formare reti formali e informali di intervento e promuovere in particolare gruppi di auto-aiuto, anche attraverso piattaforme informatiche”.
Il rapporto suggerisce di prestare particolare attenzione alle conseguenze dell’isolamento sociale, in termini fisici e psicologici, sulle persone anziane in quanto particolarmente a rischio. Aiuterebbero, si legge, “accordi di collaborazione con associazioni di volontariato al fine di promuovere interventi di socializzazione e sostegno, e percorsi prioritari di collaborazione con i medici di medicina generale e con i servizi di geriatria”, mentre per ogni centro di salute mentale dovrebbero essere individuati allo scopo almeno uno psichiatra, uno psicologo, un infermiere, un tecnico della riabilitazione sociale e un assistente sociale.
Oltre a questo, un altro progetto mirato a studiare come sono andate le cose è il “COVID-IT-mental health trial”. I suoi autori e autrici proveranno a “valutare l’impatto della pandemia di COVID-19 e delle sue misure di contenimento sulla salute mentale della popolazione italiana”, nonché identificare le aree principali dove intervenire con misure di lungo periodo a supporto di chi è stato colpito.
I partecipanti allo studio verranno divisi in quattro gruppi, che comprenderanno in primo luogo le persone messa in quarantena ma non esposte direttamente al virus, coloro che invece sono stati esposti al virus e dunque isolati, il personale sanitario, e infine le persone che avevano già fatto ricorso a servizi sanitari relativi alla salute mentale.
Come nota l’articolo, la pandemia causata dal coronavirus rappresenta un evento unico perché molto diverso da altri avvenimento traumatici come terremoti o tsunami. Questi ultimi sono casi in cui i fattori traumatici appaiono limitati a momenti e luoghi specifici, da cui le persone sanno di poter “fuggire”. Nella pandemia di COVID-19, al contrario, la minaccia può essere in ogni luogo e portata da chiunque ci sia vicino. Le persone che vivono nelle città più colpite, si legge ancora, stanno attraversando livelli estremamente elevati di incertezza, paura di essere infettate e preoccupazioni per il futuro. Gli unici studi comparabili, concludono, sono quelli condotti durante l’epidemia di SARS del 2002-2004. Analisi che hanno mostrato un grosso aumento nella paura di ammalarsi o morire, sentimenti di impotenza, sensi di colpa e depressione.
Le analisi portate avanti da questo studio proveranno a misurare se anche in Italia si è verificato – e si sta verificando – qualcosa di simile. È quanto si aspettano gli scienziati.