Ogni giorno la protezione civile pubblica il numero complessivo di morti attribuibili alla pandemia di Covid-19 in tutta Italia. Si apprende che abbiamo toccato quota 969 decessi il 27 marzo nella prima ondata e 753 il 18 novembre, finora, nella seconda. Ma che cosa significa di preciso in termini di “aggressività del virus”?
Sono mesi che se ne discute per capire se si tratta di morti “con” il Covid19 o “per” il Covid19, specie alla luce delle profonde differenze nei tassi di letalità fra i diversi paesi.
In un documento del 4 agosto 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce un decesso per Covid-19 come un decesso derivante da una malattia clinicamente compatibile in un caso Covid-19 probabile o confermato, a meno che non esista una chiara causa alternativa di morte che non può essere correlata alla malattia Covid-19 (per esempio un trauma, un incidente). Per parlare di morte da Covid non deve esserci inoltre un periodo di completa guarigione tra la malattia e la morte.
Anzitutto bisogna fare una distinzione fra tasso di mortalità e tasso di letalità, due concetti diversi che dobbiamo imparare anche a riconoscere terminologicamente in lingua inglese, che è la lingua in cui sono scritti gli studi scientifici. È importante per non fare confusione quando leggiamo una nuova ricerca, un rapporto, un database internazionale.
Primo: che si tratti di letalità o mortalità, stiamo sempre parlando di stime, più o meno realistiche a seconda della capacità di testing del sistema sanitario in questione. Banalmente, se una persona COVID19 positiva muore ma nessuno sa che era positiva, non viene conteggiata.
Fatta questa premessa, si parla comunemente di letalità e mortalità, in questi termini:
• Il tasso di letalità, che calcola quante persone sono morte fra quelle positive al COVID19.
• Il tasso di mortalità, che calcola quante persone sono morte sul totale delle persone esposte, cioè sugli abitanti del nostro paese.
La prima cosa da capire è quindi che epidemiologicamente non ha senso valutare l’ aggressività del virus in termini di “percentuale di cittadini italiani morti”. La letalità del virus va calcolata su quante persone positive si aggravano a tal punto da morire, che ci fa capire quanto è importante fermare i contagi, perché maggiore è il denominatore (persone positive) più in proporzione saranno i ricoverati gravi e i morti.
È evidente che la letalità dipende dal sistema di tracciamento dei contatti: avere alti tassi di letalità può significare che abbiamo individuato pochi positivi, solo i più gravi, mentre tassi di letalità più bassi può significare un campione più elevato di persone testate, ma magari un numero assoluto comunque molto alto di morti.
In realtà, l’Organizzazione Mondiale della Sanità utilizza un’altra terminologia:
• Case Fatality Ratio (CFR) che ricalca il nostro Tasso di Letalità perché stima la proporzione di decessi fra i casi confermati di malattia e che si calcola tramite il rapporto fra numero di morti per una malattia e il numero di casi confermati da un test (per 100). Nella fase iniziale della pandemia, la maggior parte delle stime dei tassi di letalità sono state basate su casi rilevati tramite sorveglianza e calcolati utilizzando metodi grezzi, dando luogo a stime ampiamente variabili del CFR per paese – da meno dello 0,1% a oltre il 25%.
• Infection Fatality Ratio (IFR), che stima la proporzione di decessi fra gli individui infetti, che si calcola tramite il rapporto fra numero di morti causati da una certa malattia e il numero di persone infettate (moltiplicato poi per 100). Per “persone infettate” si intendono tutti quelli che sono entrati in contatto con il virus, anche coloro che da asintomatici non hanno mai fatto un test e quindi non hanno mai saputo di essere positivi. Il test sierologico su un campione casuale rappresentativo della popolazione per rilevare prove di esposizione a un agente patogeno è il metodo fondamentale per stimare il numero reale di individui infetti, e quindi per calcolare l’IFR, ma dipende anch’esso dalle risorse messe in campo dai vari paesi.
Il case fatality ratio (CFR) è quindi l’indicatore più utilizzato di letalità, perché per misurare accuratamente l’IFR, è necessario conoscere un quadro completo del numero sommerso di infezioni e di decessi causati dalla malattia, cosa appunto non semplice.
La precisione del CFR però dipende da due aspetti: la probabilità di rilevare casi e decessi dovrebbe essere costante nel corso dell’epidemia e tutti i casi rilevati su cui si fanno i conto dovrebbero essere stati risolti (guariti o morti). È chiaro che queste due ipotesi non possono verificarsi in un’epidemia in corso.
Infine, la media sarà sicuramente poco significativa sul rischio dei gruppi più vulnerabili. Qualsiasi tentativo di acquisire una singola misura di mortalità in una popolazione non riuscirà a tenere conto delle eterogeneità sottostanti tra i diversi gruppi di rischio e dell’importante bias che si verifica a causa delle loro diverse distribuzioni all’interno e tra le popolazioni.
Potenziali bias nell’individuazione di casi e decessi.