Una estesa letteratura empirica in scienza politica ha da qualche tempo sottolineato il crescente manifestarsi in vari contesti di democrazia matura, a partire dagli Stati Uniti (ma non solo – come vedremo), di quello che viene definito con il termine di “polarizzazione affettiva”. Ovvero una crescente divisione tra gruppi entro una data società che si basa più su una ostilità e un pregiudizio emotivo verso la controparte politica, piuttosto che sui tradizionali fattori ideologici e programmatici, che hanno contraddistinto la politica durante il tanto vituperato “secolo breve”. Insomma, se non ci si piace, fino al punto di arrivare ad odiarsi, non è più perché si perseguono obbiettivi politici contrapposti, ma perché ci si percepisce appartenenti ad identità diverse ed inconciliabili. A tribù opposte.
A tal punto da spingere Cass Sunstein, professore ad Harvard e noto giurista, a coniare il termine “partyism”, un acronimo che rende esplicite le somiglianze tra l’animosità di parte tipica della “partisanship” (termine inglese per indicare un mix tra partigianeria e faziosità) e il razzismo (“racism”). Anche perché al cuore di questo fenomeno, piuttosto che un crescente amore per i propri “simili” – politicamente parlando, è soprattutto la crescita dell’avversione per l’altro a risultare fondamentale. E infatti il fenomeno del “votare contro” invece che “votare per”, perché l’unica cosa che davvero conta è godere quando la squadra avversaria perde, sta aumentando in maniera rilevante secondo alcuni studi. Insomma, sembrerebbe che di fronte alla persistente necessità di sentirsi parte di identità collettive, le grandi narrazioni ideologiche del passato siano state sostituite da un esplosivo cocktail di emotività mista ad animosità.
Il caso degli Stati Uniti.
Alcuni dati significativi a sostegno di quanto detto sinora. Guardiamo al caso degli Stati Uniti, e soffermiamoci su un indicatore rispetto cui disponiamo di una lunga serie temporale, quello del “feeling thermometer”, ovvero del “termometro del sentimento”. Da fine anni ‘60 fino ad oggi, i sondaggi elettorali dell’American National Election Studies hanno infatti costantemente incluso una domanda in cui si chiedeva agli americani non solo di indicare il sentimento verso il proprio partito su una scala da 0 a 100, dove 0 indica la massima distanza e il 100 la massima vicinanza o apprezzamento, ma anche verso il partito per cui non si vota. L’evoluzione temporale di questa statistica è in questo senso illuminante.
Mentre sia i Democratici che i Repubblicani hanno mantenuto un sentimento positivo elevato e generalmente stabile per il proprio partito preferito (con valutazioni medie del termometro che si aggirano intorno a 70 per l’intero periodo), entrambi i gruppi sono diventati drammaticamente più negativi l’uno verso l’altro. Se all’epoca del presidente Bush (padre), in media un elettore repubblicano aveva una opinione non entusiasta, ma almeno indulgente, nei confronti della controparte democratica (con un valore del termometro del sentimento intorno a 50), e lo stesso poteva dirsi per i democratici, all’epoca del secondo mandato di Obama (quindi ancor prima di qualunque effetto “Trump”) il dato crolla. La Figura 1 tratta da un articolo scientifico di Shanto Iyengar e Masha Krupenkin, entrambi di Stanford University, mostra chiaramente questa evoluzione. La valutazione del termometro verso “gli altri”, ovvero verso il partito opposto al proprio, tocca poi il suo minimo, non sorprendentemente, per le elezioni del 2016, in cui in media il punteggio dato al “gruppo avverso” si assesta intorno ai 26 punti. Il dato del termometro per le elezioni del 2020 non è ancora disponibile, ma l’aspettativa è che tale dato scenda ancora. Ma c’è di più. Dal 2012 in poi, la valutazione più frequente del sentimento verso l’altro partito è il punteggio minimo possibile (cioè zero), il che indica un drastico cambiamento nella distribuzione complessiva di risposte.
Figura 1: Termometro del sentimento nel caso statunitense: sentimento verso la propria area politica e verso quella opposta. Tratto da: Iyengar, Shanto and Masha Krupenkin. 2018. The Strengthening of Partisan Affect, Advances in Political Psychology, Vol. 39, Suppl. 1, 2018
Una “avversione di gruppo” che sconfina anche nelle considerazioni e nei giudizi relativi alle vite private degli individui: per citare un’altra famosa statistica, negli anni ‘60 meno del 10% degli americani si sarebbe sentito “triste” se il proprio figlio/a si fosse sposato con un elettore di un partito diverso dal proprio, laddove 50 anni dopo il dato sfiora il 50%. E questo mentre, nello stesso lasso temporale, la percentuale di americani bianchi contrario al fatto che il proprio figlio/a sposi un americano nero (e viceversa) scende sotto il 5%. Una simile tendenza ad isolarsi in gruppi è stata poi notata anche nei siti di incontri online (insomma vai “dove ti porta il cuore”, ma solo se anche l’altro/a è della tua “tribù”), mentre emergono dati di discriminazione “faziosa” anche quando si tratta di assumere qualcuno o di promuoverlo.
Questa tendenza è ovviamente lungi dall’essere banale. Anche perché in un simile contesto le percezioni che dipingono l’altro come molto distante e diverso da sé, rischiano di diventare profezie che si auto-avverano, spingendo i cittadini ad assumere posizioni ancora più estreme come risposta. E le conseguenze a lungo termine sono ahimé chiare: drastica riduzione della possibilità di comprensione reciproca tra gruppi distinti, con tutto ciò che ne consegue, compreso l’impossibilità di ritagliare almeno qualche posizione di compromesso stabile e duratura. Anche perché se l’altro è un “nemico”, scendere a patti con lui è per definizione impossibile, o al massimo diventa un incidente di percorso da cui allontanarsi quanto prima.
E in Italia?
Una recente analisi sembra indicare che anche dalle nostre parti si registra una spiccata presenza di questa polarizzazione simbolica di gruppo. In cui il significato ad esempio delle categorie sinistra e destra si svuota di contenuti di policy per riempirsi di contenuti affettivi. In particolare, il caso italiano appare quello che in Europa Occidentale presenta il dato più eclatante a riguardo.
L’analisi appena citata si basa però su dati assai diversi rispetto a quelli del “termometro del sentimento” da cui siamo partiti. In questo senso, in collaborazione con Simone De Battisti, direttore dell’Osservatorio Socio Politico di Hokuto, abbiamo voluto introdurre per la prima volta in Italia, almeno a nostra conoscenza, proprio questi termometri. Ovviamente la principale differenza con il contesto statunitense è che in Italia abbiamo un sistema multi-partitico, non bi-partitico. Per semplificare le cose ci siamo quindi focalizzati su tre principali aree politiche, pur con tutti i limiti della cosa (stanti i continui cambiamenti della scena politica italiana): ovvero il centro-sinistra, il centro-destra e il M5S. A ciascun rispondente appartenente (nel senso che dichiara di votare per) ad una delle tre aree, è stato dunque chiesto di valutare lungo il termometro del sentimento sia la propria aree politica che le altre. Ovviamente in questo caso non abbiamo alcuna serie storica cui fare riferimento. Detto questo, e almeno in chiave comparata con gli Stati Uniti, i dati sono piuttosto indicativi.
Termometro del sentimento, il caso Italia.
Se in media gli italiani sono affezionati alla propria parte politica più o meno quanto gli americani (in media il sentimento verso la propria parte politica si assesta a 67 punti, con punte in alto di 69 tra gli elettori del M5S e in basso di 62 punti tra gli elettori del centro-sinistra), la vera (preoccupante) diversità si riscontra dal lato del sentimento verso gli altri gruppi. Qua il dato italiano, in media, è di 10 punti più basso rispetto a quello americano, arrivando a 15. Un dato sostanzialmente simile tra tutte le 3 aree politiche considerate, tra l’altro. E che non varia neanche troppo, aumentando solo marginalmente, se ci soffermiamo sugli attuali co-membri del governo: in questo caso il sentimento verso il M5S mostrato dagli elettori di centro-sinistra è di 20, mentre nel caso opposto è del 27.
Figura 2: Termometro del sentimento nel caso italiano: sentimento verso la propria area politica e verso quella diversa dalla propria
Un dato che è confermato anche guardando alla distribuzione della “simpatia” mostrata verso le aree politiche altrui. Qua il voto più frequente è 0, dato da quasi 1 rispondente su 2 (44,9%), mentre solo il 6% fornisce un valore di sentimento sostanzialmente neutrale (ovvero vicino a 50 o superiore).
Figura 3: Distribuzione del Termometro del sentimento nel caso italiano verso l’area politica diversa dalla propria
Insomma, in attesa di capire se anche gli italiani, come negli Stati Uniti, inizieranno a storcere il naso se la propria figlia convola a nozze con qualcuno dell’altra parte politica, la situazione mostra un quadro complicato, in cui gli inviti alla moderazione che provengono da più parti in queste settimane (e mesi) di intenso dibattito politico sono quanto mai ben accettati. Ma rischiano di innestarsi su un contesto sociale poco interessato e sensibile a tale richiamo.
Nota metodologica: l’indagine relativa al caso italiano è stata condotta tramite sistema cawi-community-qapp dal 25 al 29/11/2020. 2234 interviste rappresentative della popolazione italiana maggiorenne per sesso, età, regione. Margine di errore statistico massimo +/- 2.1%
Autore: Luigi Curini, professore di scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano, e visiting professor presso Waseda University di Tokyo. E’ anche chair dello standing group “Metodi della ricerca per la scienza politica” della Società Italiana di Scienza Politica (SISP). E’ co-editor del SAGE Handbook of Research Methods in Political Science & International Relations (2020).