Per rendere sostenibile l’invecchiamento della popolazione previsto nel prossimo quarto di secolo bisognerebbe aumentare di oltre il 40% il numero di posti letto nelle residenze per anziani e, contemporaneamente, far crescere del 70% la presenza di badanti per il lavoro domestico di cura. Questo nello scenario minimo, immaginando cioè di mantenere, da qui al 2045, la stessa offerta di posti letto in Rsa per mille abitanti anziani che abbiamo attualmente, vale a dire poco più di 18. Se invece volessimo passare a un’offerta perlomeno allineata alla media Ocse (43,8 posti letto per mille anziani) allora dovremmo affrontare uno sforzo erculeo, passando dai 259mila posti attuali a oltre 610mila (+135%).
La crisi sanitaria innescata dalla pandemia ha reso piuttosto evidente quanto sia vulnerabile la nostra rete di protezione per anziani non autosufficienti. Una debolezza destinata a moltiplicarsi se non si decide di intervenire subito su un’offerta di welfare di cui si parla poco ma che molto presto si rivelerà determinante per gestire la transizione demografica in atto. I numeri che presentiamo con questo articolo sono stati elaborati dall’Osservatorio settoriale sulle Rsa della LIUC Business School guidato dal professor Antonio Sebastiano, utilizzano fonti Istat, Ocse e Inps e sono del tutto coerenti con le previsioni sulla spesa pensionistica e socio-assistenziale di medio-lungo termine compilate ogni anno dalla Ragioneria generale dello Stato. Nello scenario nazionale base di Rgs – da prendere con le pinze dopo la maxi-recessione che ora dobbiamo smaltire – la spesa per la cura dei più anziani (Ltc) è destinata a oscillare attorno al 2% del Pil nei prossimi 25 anni, poco più di 30 miliardi, per metà pagata cash con l’indennità di accompagnamento distribuita a prescindere dall’Isee. E deve battersela con una spesa per pensioni mai inferiore al 16% e una spesa per la sanità in crescita dal 7 al 8% (con una componente Ltc dello 0,9%). Sono proiezioni pre-Covid-19 e ci dicono da sole che non basterà. <La crescente pressione attesa sul sistema di offerta – spiega Sebastiano – è fortemente connessa all’incremento del peso della popolazione anziana, soprattutto con riferimento al segmento degli over 85. Anche nelle ipotesi più ottimistiche, è impensabile che il sistema di offerta, soprattutto quello residenziale, possa svilupparsi proporzionalmente all’andamento demografico atteso>.
Il driver principale dell’invecchiamento della popolazione è ben noto: sono gli oltre 15 milioni di italiani nati tra il 1961 e il 1976, le famose 16 coorti dei baby boomers che rappresentano circa il 25% del totale dei residenti. Sono le generazioni più numerose, arrivate in anni in cui si registravano oltre un milione di nascite l’anno (il picco fu nel 1964), generazioni rimaste tra le più popolose tra il centinaio di coorti che compone la struttura della nostra popolazione. Ebbene il loro progressivo passaggio dall’età matura alla senilità sta determinando la grande trasformazione demografica che corre con una spinta e un’intensità enormi e che ci porterà tra il 2045 e il 2050 a vivere in un Paese nel quale gli over 65enni saranno il 34% dei residenti, più di uno su tre, e dove il tasso di dipendenza degli anziani, ovvero il rapporto tra over 65enni e residenti in età di lavoro (15-64) sarà raddoppiato.
Scrive Istat nel report sul futuro demografico del Paese realizzato partendo dalla popolazione al 1° gennaio 2017 e ora da aggiornare in peggio dopo l’ultimo Censimento 2018-2019, che l’età media passerà dagli attuali 44,9 a oltre 50 anni nel 2065. Considerando che l’intervallo di confidenza finale varia tra 47,9 e 52,7 anni, il processo di invecchiamento della popolazione è da ritenersi “certo e intenso”. Anche la sopravvivenza, prevista in aumento, conferma lo scenario di invecchiamento veloce in corso. Entro il 2065 la vita media crescerebbe di oltre cinque anni per entrambi i generi, giungendo a 86,1 anni e 90,2 anni, rispettivamente per uomini e donne (80,6 e 85 anni nel 2016). Insomma, viaggiamo verso un società più anziana, longeva, e fatta di famiglie più strette.
Ecco l’altro problema: la riduzione della dimensione media della famiglia, dovuto alla contrazione delle nascite, al prolungamento dell’intervallo tra matrimonio e procreazione, ai cambiamenti nello stile di vita, all’incremento del tasso dei divorzi ed alla maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro. <Sono tutti fattori – spiega ancora Sebastiano – che, soprattutto in ottica prospettica, riducono enormemente i margini di apporto della famiglia all’assistenza in caso di non autosufficienza totale o parziale, sia dal punto di vista della partecipazione come caregiver, sia dal punto di vista del sostegno economico>. Tra il 1995 e il 2018 i nuclei delle coppie senza figli, quindi potenzialmente senza caregiver disponibili, sono aumentati di 1,2 milioni di unità (+25%); tra i nuclei familiari con figli, già di per sé in fortissima diminuzione, cresce simultaneamente la presenza di coppie con un solo figlio e di monogenitori. E per completare il quadro si deve aggiungere che, sempre negli ultimi 25 anni gli ultra-60enni che vivono da soli hanno superato il milione (+44,46%).
Come se ne esce? Magari inserendo il tema tra quelli strategici da affrontare con Next Generation EU, di pari passo con le politiche di sostegno alla natalità, i cui effetti sarebbero comunque fuori portata rispetto agli squilibri indicati da qui a metà secolo. Oltre che in asili nido, per rendere più sostenibili le condizioni di vita delle generazioni future bisognerà insomma investire subito in Rsa. E puntare anche su una maggior presenza di badanti con contratti regolari (dal milione attuale ad almeno un milione e 736mila per coprire il fabbisogno degli over 75enni), visto che nel 2019 secondo diversi osservatori il 60% del lavoro domestico si è svolto in nero, con un’evasione stimata in 3,1 miliardi (1 miliardo per l’Irpef e 2,1 per mancati contributi; stando ai dati di Assindatcolf).
L’intervento dello Stato da solo, naturalmente non basterà: <Certamente lo sviluppo di un mercato assicurativo in materia di Ltc può rappresentare un’interessante soluzione per rispondere ai rischi economici connessi alla non autosufficienza – conclude Sebastiano – pur nella consapevolezza che si tratta di una soluzione parziale i cui effetti, al tempo stesso, possono assumere connotati rilevanti solo in una logica di lungo periodo>. Nell’immediato è invece indispensabile comprendere <se ed in che modo il sistema pubblico, Regioni incluse, possa farsi promotore di iniziative volte a stimolare queste forme di welfare (per esempio con fondi integrativi pubblici di scopo), anche al fine di evitare che si traducano in soluzioni sostitutive e non integrative rispetto al primo welfare>.