Abbiamo avuto più morti nella cosiddetta “seconda ondata” che nella prima: 49.274 fra ottobre 2020 e gennaio 2021 (il 57% del totale), e 34.278 fra marzo e maggio (il 40% del totale). E 1.837 decessi durante l’estate.
Nella confusione vigente nella raccolta e catalogazione dei dati sui contagiati e sui sintomatici, sia da parte delle regioni che del governo centrale, almeno sui morti dovremmo poter essere tutti d’accordo. Per lo meno, possiamo fare qualche osservazione sui dati che possediamo sui 85.418 pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 in Italia riportati dalla Sorveglianza Integrata COVID-19 coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS).
Il 27 gennaio l’ISS ha pubblicato questo rapporto dal titolo “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, che saggiamente suddivide i dati nei tre periodi marzo-maggio 2020, giugno-settembre e ottobre 2020-gennaio 2021. Saggiamente perché come precisato in una delle note del rapporto, il numero dei morti, relativi al periodo ottobre 20- gennaio 21, è in fase di consolidamento a causa del ritardo di notifica.
Per il resto delle informazioni invece dobbiamo aspettare. I conti a livello nazionale li possiamo fare solo su 6.381 deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche, cioè per il 7,4% delle persone decedute, di cui 1.331 fra ottobre e gennaio. Abbiamo i dati clinici dettagliati solo si 1.331 deceduti da ottobre a oggi su 49.274.
Quindi: abbiamo i dati relativi alla residenza (a livello regionale, non più dettagliato) sull’età e sul sesso di 85.418 deceduti, ma i dettagli clinici sulle patologie, sui farmaci utilizzati durante il ricovero e sui tempi dello stesso, sono disponibili solo per 6.381 persone.
È evidente quindi che le conseguenze che si traggono non possono essere generalizzate e soprattutto non possono essere interpretate in termini di rischio. Ma perché l’ISS ha potuto analizzare i dati dalle cartelle cliniche solo del 7,4% dei deceduti? La risposta – si legge è la seguente: “Le cartelle cliniche sono inviate all’ISS dagli ospedali secondo tempistiche diverse, compatibilmente con le prioritarie delle attività svolte negli ospedali stessi. Il campione è quindi di tipo opportunistico, rappresenta solo i decessi in soggetti che hanno avuto necessità del ricovero, e le Regioni sono rappresentate cercando di conservare una proporzionalità rispetto al numero di decessi.” La vera risposta è perché nonostante quanto si dica da circa un decennio manca ancora un’infrastruttura davvero interoperabile basata sul fascicolo sanitario elettronico che fa sì che anche l’ISS non abbia accesso alle cartelle cliniche dei pazienti in un momento complesso come questo.
Letalità non è rischio
La prima importantissima premessa, che scrive chiaramente ISS, e che noi di Infodata ci sentiamo in dovere di sottoscrivere è la seguente: “le differenze regionali nella percentuale di decessi riportate in tabella non devono essere interpretate in termini di rischio. La letalità dipende infatti dal numero di infezioni avvenute in ciascuna Regione in un arco temporale compatibile con l’eventuale osservazione dell’evento fatale.” In altre parole: un tasso di letalità più alto rispetto ai contagi in una regione e uno più basso in un’altra non significa per esempio che necessariamente nella prima c’è più rischio di morire che nella seconda. Appunto perché ci si basa sui tassi di infezione, che ogni regione, come oramai sappiamo, individua a suo modo.
Altra cosa è dire che un terzo dei decessi per COVID19 è avvenuto in Lombardia, dato sicuramente più solido, dal momento che da quando è iniziata ufficialmente la pandemia ogni ospedalizzato veniva sottoposto a tampone. Certamente rimane l’incognita di parte dei decessi a casa, soprattutto durante la prima ondata. Si sono registrati 26.674 decessi in Lombardia finora, dei quali 16.363 nella prima fase. Riportiamo i numeri precisi fino all’unità per rispetto di tutte le vittime, a costo di essere ridondanti.
I dati sulle patologie pregresse
Come si è detto, abbiamo i dati sulle patologie pregresse solo per 6.381 deceduti. Anche i dati sui tempi intercorsi fra primi sintomi e decesso sono possibili solo per queste 6.381 persone, e si osserva che sono gli stessi in tutte le fasi: una mediana di 12 giorni.
Comunque, su queste 6.381 persone decedute, 196 pazienti (il 3,1% del campione) non avevano patologie pregresse, 772 (il 12,1%) presentavano una patologia, 1.185 (il 18,6% del campione) presentavano 2 patologie e 4.228 (il 66,3%) presentavano 3 o più patologie.
Le malattie più comuni in questo piccolo campione che abbiamo potuto esaminare sono: al primo posto l’ipertensione arteriosa, presente nel 65,8% dei pazienti deceduti, il diabete di tipo 2 (29,3% dei deceduti), la Cardiopatia ischemica, presente nel 28,1% dei pazienti deceduti, la fibrillazione atriale presente nel 24,2%, lo scompenso cardiaco (nel 16,1%)
Attenzione: ancora una volta tutto questo non ci dice molto in termini di rischio. Prendiamo per esempio l’ipertensione. Una diagnosi di ipertensione arteriosa in cartella clinica andrebbe precisata in termini di gravità della stessa, e di capacità di controllarla da parte del paziente. In gergo si parla di compliance, aderenza alla terapia, cioè se il paziente assumeva correttamente i farmaci oppure no. Lo stesso per la categoria “cancro attivo negli ultimi 5 anni”. Rientrano in questa categoria casistiche così diverse fra loro, in primis essere ancora in terapia oppure no, che avere questo dato sicuramente non ci aiuta operativamente a stimare un rischio. Chi legge tenga presente che questi dati possono solo dirci che 1065 persone morte per COVID-19 su 6.381 cioè il 16% aveva avuto una diagnosi di cancro negli ultimi 5 anni. Altra cosa sono le valutazioni di impatto di una malattia come il COVID-19 a seconda delle patologie pregresse devono essere effettuate attraverso studi scientifici controllati.
L’età dei deceduti
Nel complesso l’età media dei pazienti positivi al SARS-CoV-2 è stata 48 anni mentre quella dei deceduti positivi 81 anni (la mediana 83 anni). 52.852 decessi su 85.418 hanno riguardato persone con più di 80 anni e 20.795 persone fra i 70 e gli 80 anni.
Al 27 gennaio 2021 i morti con meno di 50 anni sono stati 941, quindi l’1,1% dei 85.418 decessi totali. 234 di questi avevano meno di 40 anni. 147 fra i giovani deceduti presentavano gravi patologie preesistenti come patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità, mentre 35 non avevano diagnosticate patologie di rilievo.
Col tempo abbiamo usato meno antivirali, non di più
Parrebbe che col passare dei mesi ci sia stata una netta riduzione nell’utilizzo degli antivirali e un aumento nell’uso degli steroidi nel secondo e terzo periodo rispetto alla prima fase. Il condizionale è d’obbligo: ancora una volta, i dati si riferiscono solo a 6.381 decessi su 85.418, di cui solo 1331 fra ottobre e gennaio. Servono più dati.
L’85% dei ricoverati ha assunto antibiotici, non certo per il SARSCoV-2 ma per altre infezioni, dal momento che gli antibiotici si usano per combattere infezioni batteriche e non virali. L’uso di antibiotici è compatibile con inizio terapia empirica in pazienti con polmonite, in attesa di conferma di positività. La terapia steroidea è stata somministrata nel 53,3% dei casi mentre la terapia antivirale nel 46,4% delle persone poi decedute. Al 4% dei pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi è stato somministrato Tocilizumab (anticorpo monoclonale umanizzato) come terapia. Di nuovo: non è tramite questi dati epidemiologici parzialissimi che possiamo fare valutazioni spicce sull’efficacia o meno di un farmaco. Servono studi scientifici seri condotti in modo controllato.