L’esempio, plastico, sta in questa discussione su Twitter tra il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta e l’onorevole Claudio Borghi (Lega). I quali discutono di andamento dei contagi e misure di contenimento della pandemia e lo fanno dati e grafici alla mano. Rimanendo, ovviamente, ciascuno della propria idea. Non interessa qui prender le parti dell’uno o dell’altro, cosa della quale, peraltro, nessuno dei due ha certamente bisogno.
Interessa, qui, un altro elemento: il fatto cioè che anche chi ha posizioni eterodosse sulla pandemia sostenga i propri argomenti utilizzando dei grafici. Grafici che sono costruiti a partire dai dati sul contagio diffusi dalle fonti istituzionali. È a questa conclusione che è giunta Crystal Lee, ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology, in un paper dal titolo “Viral visualizations: how coronavirus skeptics use orthodox data practices to promote unorthodox science online”.
Uno studio basato sull’analisi di oltre 390 milioni di Tweet pubblicati tra il gennaio e il giugno dello scorso anno e di cinque gruppi Facebook, con una fan base che oscilla tra le 10mila e le 300mila persone. Un’analisi che ha permesso di verificare che «i no-mask [termine che in questo studio è utilizzato per indicare chiunque sottostimi l’impatto della pandemia e contesti le misure di contenimento del contagio, ndr] usano una narrativa data-driven per sostenere le proprie credenze eterodosse». In altre parole, utilizzano delle data-viz: il team che ha lavorato al paper ne ha esaminate più di 35mila, individuando i grafici a linea (21%) e le mappe (13%) come le più utilizzate.
Di fondo c’è la sfiducia nelle istituzioni e nei grafici che producono per spiegare il motivo per cui introducono misure più o meno severe di lockdown. Una sfiducia che, almeno su questo lato dell’Oceano, le istituzioni contribuiscono ad alimentare. Polemiche a parte, i post social analizzati da Lee mostrano la volontà di andare all’origine dei dati. Dati che magari vengono contestati, affermando ad esempio che utilizzare il tasso di positività per misurare l’andamento dell’epidemia non sia corretto perché si testano soprattutto i sintomatici e i loro contatti, cosa che contribuisce ad alzare questo tasso. Nonostante queste critiche, però, i dati di fonte ufficiale vengono comunque impiegati.
Il che pone un passo oltre la celebre frase di Gregg Easterbook per cui «se torturi i dati confesseranno qualsiasi cosa». Lo studio, conclude Lee, mostra che «le data-visualization non sono semplicemente degli strumenti che le persone usano per comprendere» l’andamento dell’epidemia. Ma sono «un campo di battaglia che evidenzia quanto sia contestato il ruolo degli esperti nell’America di oggi». Non solo negli Usa, si potrebbe dire, specie in un Paese dove un parlamentare su tre è stato eletto nella convinzione che uno vale uno.
Non è quindi corretto liquidare i no-mask, come li definisce lo studio del Mit, semplicemente come degli ignoranti. Questo ammesso e non concesso che sia giusto, sensato e produttivo farlo. Il problema, insomma, non è la mancanza di una data literacy. L’analisi guidata da Lee mostra il contrario: gli appartenenti a queste comunità sono profondamente impegnati nell’elaborare argomenti cui riconoscono un valore scientifico. Queste persone mostrano uno studio dei dati ed una conoscenza delle tecniche di rappresentazione, che si mescolano all’idea che il modo in cui un dataset sia costruito sia soggettivo, al tentativo di riconciliare i dati con l’esperienza vissuta in prima persona e soprattutto di rendere il processo di comprensione di questi dati il più trasparente possibile. Appunto per emendare queste informazioni da tutte le sovrastrutture legate alla loro utilizzo da parte delle istituzioni.
E non è un caso che le visualizzazioni che preferiscono siano quelle che mostrano i dati a livello individuale, per cui un punto rappresenta una persona. Un po’ come quella realizzata dal New York Times, chiaramente con intenzioni del tutto opposte, per ricordare i 500mila americani uccisi dalla Covid-19. La signora in grigio, come viene chiamata la celebre testata newyorchese, sarà mica diventata no-mask?