Articolo del 5 dicembre 2020
Per ogni euro speso dalle famiglie con i consumi di tutti i giorni o gli acquisti più saltuari di beni durevoli, solo una parte, tra 60 e 80 centesimi, remunera fattori di produzione (lavoro e capitale) nazionali. Il resto compra e paga valore aggiunto straniero. Più in particolare, circa il 40% di questo valore aggiunto straniero è originato in altri paesi dell’eurozona.
Una prima misura quantitativa del valore aggiunto straniero contenuto nella spesa degli italiani viene proposta in un Occasional Paper (n.580/novembre 2020) appena pubblicato da Bankitalia e curato da Alfonso Rosolia, Silvia Fabiani e Alberto Felettigh, della Direzione generale per le ricerche economiche e statistiche. Il lavoro utilizza un database (Wiod) che partendo dai consumi finali di beni e servizi permette di ricostruire le catene globali di produzione calcolando la distribuzione, per Paese, dei valori aggiunti prodotti. I risultati sono significativi perché da un lato dimostrano come la semplice contabilità in termini di import/export non riesca a cogliere fino in fondo chi e che cosa paghiamo quando compriamo qualcosa. Un’auto straniera contiene anche pezzi (o fasi di produzione) italiani e, viceversa, non tutti i prodotti che vengono esportati sono completamente “made in Italy”, com’è noto. Dall’altro l’analisi ci offre una dimensione del “rischio cambio” cui sono esposti i consumatori che comprano (più o meno consapevolmente) produzioni o pezzi di produzioni da paesi extra-euro. I dati sembrano dimostrare che le famiglie meno abbienti hanno meno margini di reazione nel caso di shock di prezzo sulle componenti estere della loro spesa e dunque beneficiano di più della stabilità della valuta unica.
Ma l’analisi va oltre e offre un visione di come cambia, a prezzi correnti, la distribuzione del valore aggiunto per paese di origine contenuto nei diversi insiemi di prodotti (o servizi) che finiscono nei consumi delle famiglie. Per esempio: per ogni euro speso per il pesce solo 35 centesimi pagano valore di produzione nazionale, mentre con gli altri 65 cent compiamo valore aggiunto generato in altri paesi (in particolare: 26 cent per paesi dell’eurozona, 2,1 per il Regno Unito, 8 per gli Usa e 1,1 per la China). Oppure: quando compiamo un biglietto aereo il 37% della spesa paga produzione italiana e il resto va all’estero (19% nell’eurozona, 3,4 in Uk, 7,9 in Usa, 3,2 in Cina, e così via). La spesa diventa “autarchica” quando è invece riferita a beni nazionali come l’education (scuola e formazione), con 97 cent per euro che restano in casa, o alla compravendita di immobili residenziali (98 cent per ogni euro speso), mentre si torna pesantemente a pagare valore aggiunto straniero se si acquistano farmaci (solo 33 cent per euro vanno a produzioni italiane).
Quando il cantiere della Brexit sarà concluso e la pandemia passata (a proposito, chissà quanto valore aggiunto italiano c’era nei milioni di mascherine consumate in questi mesi), analisi di questo tipo torneranno molto utili ai policy maker. Mettere un incentivo sull’acquisto di un monopattino elettrico che non ha neanche una singola componente italiana – questo è intuitivo – aiuta poco la crescita del Pil, e i crediti di imposta stanziati qualche anno fa per i pannelli solari hanno finanziato prevalentemente lavoro e capitale “made in China”. Più complesso sarà invece prendere posizione quando la nuova amministrazione statunitense vorrà ridefinire le proprie politiche commerciali, magari chiudendo il capitolo delle guerre tariffarie. Le misure quantitative che indicano come e dove finisce la spesa delle famiglie diventeranno allora piuttosto strategiche.
Questioni di Economia e Finanza N. 580 – novembre 2020 “Autarchia lungo la distribuzione”
Autori: Silvia Fabiani, Alberto Felettigh e Alfonso Rosolia
Data Analysis è una nuova sezione del blog: ospiterà interventi di ricercatori e docenti universitari e analisi di data journalist ed esperti su working paper, articoli scientifici e studi che parlano in modo più o meno diretto alla società e alle politiche data-driven.