L’epidemia di COVID-19 ha portato nel 2020 alla più grande crisi di mortalità dai tempi della seconda guerra mondiale, mostra uno dei più approfonditi studi in merito pubblicato sulla rivista International Journal of Epidemiology. Autori e autrici hanno trovato che in quasi tutte le nazioni studiate la speranza di vita è calata in modo significativo, con il risultato peggiore per gli Stati Uniti. Molto grave anche la situazione in Europa dell’est, con in particolare i casi di Lituania, Bulgaria e Polonia.
L’epidemia ha cancellato diversi anni di aumento della speranza di vita quasi ovunque, con pochissime eccezioni come per nazioni scandinave tra cui Finlandia, Danimarca e Norvegia. Tra esse però non vi è la Svezia, dove invece casi e morti sono stati molto maggiori. Si tratta di tre nazioni che sono state in grado di tenere molto basso il numero di casi durante la prima fase dell’epidemia, e come risultato i decessi sono stati limitati. L’analisi si è concentrata in larga parte su Europa e Stati Uniti, ma c’è da aspettarsi che la speranza di vita abbia tenuto o sia addirittura cresciuta anche nelle altre nazioni dove il virus è stato contenuto meglio come Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Australia, solo per citarne alcune.
In 22 nazioni su 29 studiate la riduzione della speranza di vita nel 2020 è stato di almeno sei mesi, mentre per le donne di otto paesi e gli uomini di altri undici il calo ha superato un intero anno. Per dare un’idea, ricorda l’analisi, di recente ci sono voluti circa cinque anni e mezzo di progressi perché la speranza di vita aumentasse di un anno, e quanto guadagnato è ora andato perso.
In Italia l’ultimo evento in cui avevamo visto perdite tanto elevate era stato la seconda guerra mondiale. Secondo le stime del demografo Stefano Mazzuco, in alcune delle province più colpite nel 2020 come Cremona, Lodi, Bergamo, Piacenza o Brescia l’epidemia ha portato una riduzione nella speranza di vita che va da tre o quattro anni. Si tratta di una riduzione maggiore di quella portata a italiani e italiane da due anni di conflitto.
A livello generale, sottolinea ancora lo studio, il risultato può essere attributo soprattutto all’aumento della mortalità negli over 60. In questo senso però fra l’Europa e gli Stati Uniti c’è una differenza. Nella prima la mortalità si è concentrata fra gli anziani, mentre negli Stati Uniti il peggioramento della speranza di vita è stato significativo anche per gli under 60. Nonostante la sua popolazione più giovane, infatti, negli Stati Uniti lo stato di salute generale della popolazione tende a essere meno buono che in Europa, fattore che ha aggravato gli effetti del virus. Lo studio suggerisce anche altre ragioni per il cattivo risultato americano, come disparità di accesso al sistema sanitario sia per la popolazione in generale che per alcune etnie in particolare. Gruppi svantaggiati come neri e latinoamericani hanno infatti avuto un numero di morti molto maggiore rispetto agli altri.
La speranza di vita alla nascita è la metrica usata dallo studio per fare confronti fra diversi paesi, e la misura più comune quando si parla della salute delle persone e della loro longevità. Il vantaggio chiave di questo indicatore è che per come viene calcolato tiene già in conto delle possibili differenze nella struttura demografica e nella dimensione delle nazioni, il che rende possibili confronti fra paesi con popolazioni più o meno giovani (l’Italia per esempio lo è molto poco, gli Stati Uniti ben di più) e in diversi momenti del tempo.
Un’importante limitazione dello studio è che i dati necessari sono spesso disponibili soltanto per le nazioni più sviluppate. Anche lì si tratta di informazioni tutt’altro che perfette, date anche le condizioni in cui sono state raccolte, e autori e autrici si premurano di sottolineare che le loro sono con tutta probabilità stime per difetto. I valori reali potrebbero essere maggiori. Allo stesso tempo non disponiamo di buoni dati per tante altre nazioni meno sviluppate, ma comunque sappiamo che diverse hanno avuto focolai che hanno coinvolto gran parte della popolazione portando a enormi danni, spesso maggiori di quanto successo in occidente.
Secondo le statistiche compilate dall’Economist i decessi in più rispetto a quanto ci aspetteremmo in un periodo normale sono stati in maggior numero in Perù, dove dall’inizio dell’epidemia i morti in eccesso sono stati 0,6 ogni mille. In Russia sono stati 0,45, in Sud Africa 0,4. In Italia, per fare un confronto, fino a giugno 2021 ne risultano 0,25 ogni mille.
Un altro esempio è l’India, dove la mancanza di test e dati attendibili ha reso molto difficile stabilire quanto sono state davvero estese le ondate di COVID-19 che hanno colpito la nazione, e in particolare cosa è successo quando la variante delta ha preso il sopravvento e si è ampiamente diffusa durante la tarda primavera 2021. Le morti confermate sono arrivate a circa 450mila, ma studi che hanno cercato di arrivare ai numeri reali hanno trovato cifre estremamente più alte, e spesso nell’ordine di qualche milione di persone. Questo renderebbe l’India, in numeri assoluti, il paese con la maggior quantità di decessi al mondo.