Germanwatch è un’organizzazione no profit non governativa con sede a Bonn. A inizio hanno ha pubblicato il Climate Risk Index 2021 che in questa edizione presenta i dati relativi al 2019. Anzi sono stati presi in considerazione i dati più recenti disponibili, per il 2019 e dal 2000 al 2019.
Ricordiamo che l’indice in questione è uno strumento che serve a stimare il livello di rischio a cui un paese è sottoposto in virtù dei cambiamenti climatici, declinato secondo quattro fattori che, combinati e pesati opportunamente, contribuiscono ad un valore con cui è possibile osservare quali siano le nazioni maggiormente esposte.
Per la precisione, le quattro variabili prese in esame sono il numero di vittime attribuibili a fattori atmosferici, lo stesso numero riparametrato su centomila abitanti, l’ammontare delle perdite in potere di acquisto (purchasing power parity) e le perdite relazionate al prodotto interno lordo (gross domestic product).
Lo score complessivo (CRI score) corrisponde alla media tra i ranking delle quattro voci interessate, pertanto più basso è il valore dell’indice più alto sarà il valore del rischio dovuto appunto a “posizioni” di rilievo nelle varie graduatorie.
Nel grafico che segue il valore del Climate Risk Index è stato associato ad un gradiente che spazia dal rosso per i valori più a rischio fino al verde associato alle realtà esposte in maniera minore alle conseguenze del cambiamento climatico ed in aggiunta, per i dieci paesi più colpiti sono stati riportati i valori puntuali delle quattro metriche che determinano gli score parziali.
Osservando i dati relativi al 2019, i paesi più colpiti sono stati Mozambico (2,67), Zimbabwe (6,17), isole Bahamas (6,50), Giappone (14,5), Malawi (15,17), repubblica islamica dell’Afghanistan (16,0), India (16,67), Sudan del sud (17,33), Niger (18,17) e Bolivia (19,67).
La maggior parte di queste nazioni sono state impattate in maniere diverse da importanti fenomeni atmosferici che hanno causato gravi danni e numerose morti nell’arco dell’anno esaminato.
Nello specifico, il ciclone Idai ha colpito Mozambico, Zimbabwe e Malawi, diventando in poco tempo il ciclone tropicale più letale e “costoso” (con danni stimati in oltre 2 miliardi di dollari) della zona sud-occidentale dell’oceano indiano ed in grado di assicurarsi la poco prestigiosa nomea di una delle peggiori catastrofi metereologiche della storia africana, anche “grazie” a piogge torrenziali trasportate da venti prossimi alla velocità di 200 kilometri orari.
Le isole Bahamas invece sono state attaccate a settembre dall’uragano Dorian – classificato in categoria 5 e considerato il più potente mai registrato sul territorio – con violenti temporali che, oltre ai 300 kilometri orari toccati dal vento, hanno fatto cadere 914 millimetri di acqua in poche ore, pari a circa l’80% del dato complessivo medio annuale in fatto di precipitazioni.
In termini assoluti, l’India è risultato essere il paese con il maggior numero di vittime che, anche in questo caso, sono legate prevalentemente ad episodi atmosferici di natura anomala, come il protrarsi della stagione dei monsoni per un mese aggiuntivo rispetto al tradizionale periodo che va da giugno a settembre.
In questo frangente, le piogge hanno prodotto il 110% delle media annuale, registrando il valore più alto dal 1994 e si sono tramutate in allagamenti responsabili di circa 1800 morti dello sfollamento di quasi due milioni di persone, per un impatto economico stimato in quasi 10 miliardi di dollari.
Delle dieci nazioni più impattate, la Bolivia è quella che, pur in presenza di fenomeni legate ad intense precipitazioni e conseguenti inondazioni, ha subito la maggior parte dei danni a causa dei numerosi incendi boschivi che hanno distrutto due milioni di ettari fra foresta e prati, di cui quasi la metà appartenenti ad aree protette con alto tasso di biodiversità.
Tanto per avere un’idea della gravità della situazione, al di là dell’impatto economico e del triste bilancio di vittime, è stato stimato che la rigenerazione di questa porzione di ecosistema perduto impiegherà circa trecento anni per poter tornare alle condizioni in cui si trovava prima degli incendi.