Novembre è stato un mese particolarmente “caldo” dal punto di vista dell’attenzione mediatica dedicata al tema del cambiamento climatico e, praticamente in concomitanza con il COP26 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), è stato pubblicato anche il Climate Change Performance Index (CCPI) per il 2022.
Se la conferenza tenutasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre ha ribadito l’obiettivo comune di lavorare affinchè si riesca a raggiungere il traguardo delle emissioni zero previsto per il 2050 (seppur con qualche asterisco dell’ultimo momento legato al consumo dei combustibili fossili), i dati che emergono dall’analisi condotta da Germanwatch non presentano un dato iniziale particolarmente incoraggiante.
Anche per quest’anno, nella classifica che monitora 60 paesi più l’Unione Europea, le prime tre posizioni sono state volutamente lasciate vacanti perché nessuna nazione ha saputo centrare a pieno l’obiettivo che ha come fine ultimo quello di contenere il riscaldamento climatico entro la soglia degli 1,5 gradi centigradi come stabilito dagli accordi di Parigi.
Le previsioni degli esperti in materia ipotizzano che se il surriscaldamento terrestre dovesse superare la soglia dei due gradi, gli effetti direttamente collegati al clima – come caldo e tasso di umidità – potrebbero diventare potenzialmente letali per oltre un miliardo di persone rispetto ai circa settanta milioni stimati ad oggi.
Al fine quindi di monitorare cosa succede nel mondo, il metodo utilizzato per stilare la classifica annuale prende appunto in considerazione i paesi che complessivamente generano oltre il 90% delle emissioni gas serra a livello planetario e si concentra su quattro categorie di analisi: le emissioni si gas serra (GHG emissions) che hanno un peso del 40% sul valore totale, l’uso di energie rinnovabili (renewable energy, 20%), il consumo di energia (energy use, 20%) e la politica climatica (climate policy, 20%).
Nella visualizzazione che segue, noi di Infodata, partendo dai dati contenuti all’interno dell’ultimo Climate Change Performance Index, abbiamo rappresentato lo score complessivo di ogni paese (Unione Europea compresa) come primo valore di apertura, ma che può tranquillamente essere cambiato selezionando le opzioni del menu a tendina con i quali si possono visualizzare anche i numeri relativi alle quattro categorie che compongono il risultato finale.
Come anticipato, nessuno paese ha ottenuto un “very high” (nel rating connesso ai sottoindici) in tutte e quattro le categorie, quindi nella classifica il podio è di fatto non assegnato e, di conseguenza, si parte dalla quarta posizione occupata dalla Danimarca dall’alto del suo 76,91 complessivo ed in salita di due posizioni rispetto al rapporto dello scorso anno.
La nazione danese, nell’arco di due decadi, è riuscita a compiere un’importante transizione da un’elevata dipendenza dal carbone verso una consistente adozione dell’energia eolica e delle biomasse, facendo sì che oltre il 30% dell’approvvigionamento energetico ora derivi da risorse rinnovabili, e portandola a livelli di emissioni di gas serra in linea con quanto stabilito dagli accordi di Parigi.
Subito dietro la Danimarca, in quinta e sesta posizione, figurano altri due paesi nord-europei, ossia Svezia e Norvegia che raggiungono rispettivamente i valori di 74,46 e 73,62 seguiti poi Regno Unito (73,39) e Marocco (71,64) come uniche nazioni sopra quota 70.
Complessivamente, basandosi sulla suddivisione di giudizio che va a blocchi di quindici posizioni per volta, lo score “high” (come detto non c’è nessun caso a cui è stato attribuito il giudizio “very high”) è stato assegnato a soli quattro nazioni rappresentanti del G20 (Regno Unito, India, Germania e Francia), mentre undici di esse sono finite nelle fasce “low” oppure “very low” (tra cui l’Arabia Saudita, addirittura penultima in sessantatreesima posizione), il che deve destare attenzione considerando che i paesi del G20 sono responsabili di circa tre quarti delle emissioni di gas serra mondiali.
In questo quadro generale, l’Italia è classificata al trentesimo posto (55,70), in discesa di tre gradini rispetto all’anno scorso, e di conseguenza categorizzata come avente uno score “medium”, lo stesso giudizio che è stato associato all’Unione Europea, il cui valore rappresentativo è pari a 59,53 che le vale la ventiduesima posizione, ben sei in meno se confrontata con i dati per il CCPI del 2021.
Scendendo nei dettagli delle quattro categorie, il quadro del nostro paese è tutto sommato sempre stabile con un ranking sempre nella fascia “medium” a fronte di posizione con un’escursione tra i vari piazzamenti piuttosto contenuto.
Se per quello che riguarda l’energia rinnovabile l’Italia figura nella posizione più bassa con il trentaquattresimo posto (score 7,43), sul fronte delle energie rinnovabili è ventottesima (25,20), mentre per l’uso di energia è ventiseiesima (12,78), chiudendo poi con il miglior piazzamento “individuale” in fatto di politiche climatiche che le valgono la venticinquesima posizione (10,29).
Addentrandosi nei dettagli del Climate Change Performance Index 2022, è possibile distillare alcuni “take away” con cui riassumere la situazione complessiva che emerge dall’analisi condotta, in funzione delle sottocategorie esaminate.
In particolare, in fatto di gas serra, l’emissione di CO2, probabilmente anche in virtù degli effetti della pandemia COVID-19, ha visto una diminuzione di oltre cinque punti percentuali anche se è preventivabile che, con i dati complessivi del 2021, possa esserci una risalita del dato rispetto al passato, indicazione non di certo rassicurante se si vuole garantire il target degli 1,5 gradi di surriscaldamento.
Se da un lato l’adozione delle energie rinnovabili continua a crescere a ritmi molto incoraggianti, grazie soprattutto alle sorgenti eoliche e solari che risultano oltretutto quelle decisamente più economiche per la produzione di energia elettrica, dall’altro è da notare come il fabbisogno energetico sia in ascesa e, pur contemplando l’effetto COVID-19, tanto per dare un’idea, l’Unione Europea ha sforato il tetto stabilito per il 2020, risultando così non ben indirizzata verso l’impegno preso per il 2030.
Secondo quanto riportato nell’Emission Gap Report del 2021, gli obiettivi nazionali per la riduzione dei gas serra non sono ancora sufficiente mente ambiziosi per poter ambire alla famigerata soglia di 1,5 gradi di surriscaldamento e, nonostante gli impegni volti verso la diminuzione di emissioni, si parla di numeri che dovrebbero circa dimezzarsi per giungere serenamente alla deadline del 2050.
Per approfondire.
Biodiversità, l’allarme dell’economia blu
Squali e razze a rischio di estinzione. Nuova puntata sulla biodiversità