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economia

La crisi climatica si gioca anche in cucina? Il climate change nelle nostre scelte alimentari

La battaglia della crisi climatica si gioca anche in cucina. Sono più di diciassette milioni le tonnellate di CO2 prodotte nel mondo dall’industria alimentare. Il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale, mentre quasi il doppio (il 57%) è dovuto ai cibi di origine animale. A gravare sul bilancio sono soprattutto gli allevamenti bovini e le coltivazioni di riso, con il Sud America e il Sud-Est asiatico in testa alle regioni che emettono più gas serra.

Questo è quanto esposto dalla rivista Nature Food in uno studio condotto da un gruppo internazionale di esperti guidato dall’Università dell’Illinois – a cui ha partecipato anche la divisione Statistica della Food and Agricultural Organization (Fao) di Roma. Un impatto ambientale asfissiante per i polmoni della terra. Ma quali sono le scelte alimentari privilegiate dagli italiani? E quanto impattano sulla salute della natura?

Ne parliamo aiutandoci con alcuni studi ed un grafico.

Italiani, forchette pesanti per il pianeta

Tenendo presente che la fetta più imponente, il 57% delle emissioni dell’intera industria alimentare su scala globale, siano riconducibili alla produzione di cibi di origine animale, si potrebbe dire che gli italiani a tavola siano ben poco sostenibili. Sì, perché sarà pur vero che la maglia nera (in termini di produzione di cibi con origine animale) spetti a Cina, Brasile, Stati Uniti e India; ma è anche vero che (in termini d’uso, che stimola la produzione) l’Italia è uno dei paesi con maggior consumo di cibi animali al mondo.

Secondo quanto riportato da Our World in Data  nella penisola si consumano più di centodiecimila kg all’anno di alimenti aventi origine animale. Un livello medio-alto, che in una classifica ideale ci riporterebbe subito dopo paesi con ben altri numeri in termini demografici, come gli Stati Uniti (centoquarantaseimila kg all’anno) e l’Argentina (con più di centosedicimila kg all’anno di consumo). Sono tuttavia da segnalare i paesi che benché non abbiano una demografia così incidente, dimostrano una propensione maggiore alla nostra in termini di consumo di prodotti di origine animale. Sono questi il Portogallo (prima fra tutte, con centocinquantamila kg all’anno) e la Francia (centodiciassettemila kg all’anno).

È inoltre interessante analizzare il dato facendo le dovute distinzioni in termini di prodotti consumati. A riguardo ci può aiutare il grafico ideato da Will Media e pubblicato sulla loro pagina Instagram con le quantità del consumo di carne pro capite divise per tipo – il grafico riprende il rapporto di Our World in Data sopracitato, che si rifà ai dati della FAO.

Da questa elaborazione è possibile evidenziare che in termini di scelte dei consumatori, gli italiani prediligano la carne suina (ne consumiamo quasi quarantaquattromila kg all’anno), poi il pesce (con quasi trentamila kg all’anno) e per una percentuale minore, il pollame (con quasi ventimila kg all’anno). Seguono le altre tipologie, presenti sulle tavole degli italiani in misura residuale.

Un consumo intensivo, sempre in crescita
Da quanto spiegato nel rapporto di Our World in Data, il fenomeno del consumo intensivo dei prodotti aventi origine animale è in forte crescita – persino più marcata rispetto al tasso di crescita della popolazione.

Questo non avviene tuttavia in maniera uniforme per tutti i paesi. Infatti, la crescita del consumo di prodotti aventi origine animale è stata più significativa nei paesi con un’economia in espansione. È questo il caso della Cina, dove il consumo di carne è cresciuto di circa quindici volte i livelli registrati negli anni sessanta, ovvero nel Brasile, dove sono invece quadruplicati.

Con un accrescimento così sviluppato e costante dei consumi, la produzione non potrà che seguire l’onda di esigenze espresse dalla popolazione. E, come detto, l’elevato livello di inquinamento generato da tutta la filiera dei prodotti di origine animale, non potrà che aumentare.

Sorge una domanda: ora che l’attenzione per l’impatto inquinante di ogni singola industria sembra un requisito fondamentale, assodato che l’industria alimentare generi un inquinamento diffuso e in costante crescita, cambiare dieta e abbracciarne una più sostenibile per la salute del pianeta sarebbe possibile su scala globale?