Abbiamo imparato in questi lunghi mesi di pandemia a distinguere tra beni privati e beni comuni, cioè tra beni dal cui consumo è possibile, o consigliabile, escludere certi individui o gruppi di individui e beni che, al contrario, non possono essere sottratti, per ragioni tecniche o normative, all’uso di coloro che ne fanno richiesta, come i servizi del nostro sistema sanitario. In un sistema universalistico com’è quello italiano nessun cittadino può essere in linea di principio escluso dalla somministrazione di una terapia o dall’occupare un posto letto in ospedale, qualora ne abbia bisogno. Il bene «sanità pubblica» è, nondimeno, consumabile; le strutture sanitarie possono, in condizioni eccezionali, saturarsi velocemente e l’offerta di servizi sanitari può, perciò, rischiare di essere inferiore alla domanda effettiva. Qui entra in gioco la campagna vaccinale su larga scala iniziata nel nostro Paese circa un anno fa e mirata, tra le altre cose, a ridurre l’impatto del numero di contagi sui tassi di ospedalizzazione, ovvero della velocità di circolazione del virus sul carico di malati che il nostro sistema sanitario è costretto a gestire in ogni periodo. Un solo esempio dell’efficacia dei vaccini e dell’importanza di una immunizzazione di massa: gli ultimi dati relativi ai 16 ospedali sentinella della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere, indicano che i ricoverati nelle terapie intensive sono per la maggior parte, il 74%, non vaccinati, e in parte minore, il 26%, soggetti che hanno concluso il ciclo vaccinale da più di 4 mesi, spesso con gravi comorbidità, come cardiopatie, neoplasie, patologie polmonari, diabete, ecc.
Cosa è l'”esitanza vaccinale”? La disponibilità a sottoporsi a vaccinazione, tuttavia, non è affatto una questione ovvia, tanto che numerosi governi stanno fronteggiando, talora come effetto collaterale della libertà di scelta, il problema della «esitanza vaccinale», espressione che racchiude i concetti di indecisione, incertezza, riluttanza, ritardo o rifiuto rispetto alla somministrazione di vaccini disponibili. Cosa induca riluttanza o rifiuto verso la vaccinazione è da molti anni oggetto di studio da parte di epidemiologi, sociologi e psicologi. Nell’ambito più specifico, e massimamente attuale, dei vaccini contro il COVID-19, alcuni studi hanno tentato una sintesi delle numerose ricerche prodotte nei quasi due anni di pandemia. Qui ne propongo quattro.
Il primo, pubblicato su Eclinical Medicine del gruppo The Lancet, in cui hanno collaborato Università di Belgrado e di Verona, l’Università Cattolica e il New York MEdical College, ha effettuato una ricognizione complessiva della letteratura disponibile fino al luglio di quest’anno, selezionando 209 studi. A fronte di tassi di accettazione vaccinale anche notevolmente disomogenei nelle differenti aree del mondo, ciò che le ricerche suggeriscono è che l’esitazione sia ascrivibile a un quadro varegato di fattori cognitivi ed epistemici (giudizi e credenze), psicologici (il timore generato dalla mancanza di informazioni o da informazioni inaffidabili o false), relazionali e di fiducia (legati al rapporto medico-paziente e alla personalizzazione nella scelta del vaccino che infonde sicurezza). L’esitazione si riduce, (1) se alle persone viene concesso di attendere più a lungo prima di vaccinarsi; la celerità con cui i vaccini stati resi disponibili ha aumentatto la percezione di una loro scarsa sicurezza; (2) se viene sciolto o neutralizzato per mezzo di una comunicazione univoca, capillare e completa il nucleo di pregiudizi condiviso da minoranze numerose di refrattari e instillato da decenni di falsa informazione sui vaccini; (3) se è concesso di scegliere quale siero lasciarsi somministrare, dato che non tutti i preparati utilizzano lo stesso meccanismo d’azione (maggiore diffidenza verso vaccini a mRNA); (4) se, infine, chi è in bilico tra accettazione e rifiuto ritiene di poter contare su un rapporto onesto, aperto e rassicurante con il proprio medico; in questo caso una «spinta gentile» alla vaccinazione avrà molte più probabilità di successo. Naturalmente, anche fattori di natura culturale incidono sulla disponibilità a vaccinarsi, e i maggiori tassi di esitazione sembrano coinvolgere i paesi arabi.
Il secondo studio, comparso su Public Health, condotto su un campione più ridotto di ricerche, pone l’accento su alcune dimensioni specifiche dell’esitazione vaccinale, riconducendo il fenomeno a fattori come l’età, il genere, l’etnia, il livello di istruzione e di reddito, le convinzioni politiche e religiose, ecc. Ne emerge uno spaccato sociodemografico e culturale: gli individui di etnia nera/ africana mostrano un grado di accettazione inferiore, così come, a livello statistico, le donne e gli individui dispoccupati o a basso reddito. Una maggiore esitazione sembra riscontrarsi anche tra chi si dice vicino a partiti politici radicali, tra coloro che simpatizzano per candidati di estrema sinistra o estrema destra, e tra chi dichiara di non votare per alcun partito. Anche l’età gioca un ruolo importante: la fasce anagrafiche più giovani si dichiarano complessivamente più esitanti, sebbene alcuni studi registrino rilevanti livelli di esitazione anche nelle categorie d’età centrali (34-60 anni) e tra gli anziani (over75). Infine, anche il grado di religiosità pare positivamente correlato al tasso di esitazione. Un minore livello di rifiuto si registra, invece, tra coloro che temono di più gli effetti del contagio su se stessi e tra gli operatori sanitari.
Il terzo studio, disponibile su Vaccines, rivista pubblicata da MDPI, indaga il fenomeno dell’esitazione nei paesi a elevato reddito, a partire dal contenuto di 97 ricerche scelte su 2.237 esaminate. Gli aspetti associati all’esitazione vaccinale sono stati suddivisi in quattro categorie: fattori specificamente legati al vaccino, fattori individuali, di gruppo e fattori relativi al contesto. Tra i fattori contestuali sono state privilegiate le variabili socio-demografiche, quelle politiche e quelle legate alla comunicazione e ai media. I risultati sono sostanzialmente in linea con quanto riportato dallo studio precedente: l’essere donna o giovane, di etnia non bianca o disoccupati è direttamente correlato a bassi tassi di accettazione vaccinale. Livelli più alti di rifiuto si registrano anche tra chi utilizza i social o internet come fonte principale di informazione o vive in contesti in cui mancano informazioni sui vaccini ampiamente accessibili. Anche le simpatie politiche sembrano, di nuovo, incidere: negli USA i citttadini più esitanti sembrano essere coloro che non simpatizzano per i Democratici o non hanno un orientamento liberal. Tra i fattori individuali e di gruppo, sono correlati a maggiori livelli di rifiuto la sottovalutazione dei rischi sanitari legati al covid (personali e sociali) e una bassa fiducia verso il personale medico, il sistema sanitario, o la scienza nel suo complesso. Da registrare che chi accede regolarmente alla vaccinazione antinfluenzale esita, complessivamente, di meno. Infine, i fattori direttamente riferiti ai vaccini. Chi esita spesso crede che i vaccini siano non sicuri o poco efficaci, ed è preoccupato, come emerso dagli altri studi, per i tempi ridotti in cui i sieri sono stati sviluppati, il loro principio d’azione e il fatto che essi non provengano da paesi del «primo mondo». Persino la somministrazione multidose può generare diffidenza. Un intervento di rassicurazione e persuasione diretto da parte dei medici riduce, invece, l’esitazione. Una delle ricerche riportate in questo studio nega una correlazione significativa tra incentivi monetari positivi e disponibilità a vaccinarsi. C’è, perciò, da domandarsi se ciò significhi per alcuni paesi, qualora un inasprimento delle misure contenitive non abbia effetti apprezzabili, dover procedere verso l’obbligo vaccinale universale.
L’ultimo studio è un prerprint, una ricerca per la quale il processo di peer review, la revisione paritaria di esperti in vista della pubblicazione, non è ancora concluso, ma che appare in linea con gli studi precedentemente citati. Gli autori hanno cercato di valutare il potere predittivo di alcuni fattori cognitivi, psicologici e sociodemografici attraverso un algoritmo di apprendimento automatico (machine learning). La ricerca ha coinvolto un campione di individui geograficamente trasversale in cinque paesi ad alto reddito (USA, Regno Unito, Germiania, Hong Kong e Australia). I predittori più efficaci dell’esitazione si sono rivelati, nell’ordine, le credenze cospirative a proposito di pandemia e vaccini, l’estrazione sociale (con livelli maggiori di esitazione per le fasce più basse), l’ansia da Covid associata alla percezione di un elevato rischio di infezione, la giovane età e l’appartenenza al genere femminile. Il modello ha dimostrato una sensibilità (la capacità di evitare falsi negativi) dell’83% e una specificità (la capacità di evitare falsi positivi) dell’82%. Se così fosse, si tratterebbe di un elevato potere di predizione rispetto al problema generale dell’esitazione a vaccinarsi, ben oltre il fenomeno del Covid-19.
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Autore: Luca Delvecchio è laureato in Discipline Economiche e Sociali e in Filosofia Teoretica. Collabora con l’Istituto regionale per il supporto alle politiche della Lombardia. È CEO di RTech1605