Essersi trovati impreparati a gestire lo scoppio improvviso della pandemia ha fatto sì che i sistemi sanitari abbiano scelto di sospendere l’offerta dei programmi di screening oncologici organizzati. Oggi cominciamo ad avere i dati nazionali sulle conseguenze di questa scelta. Dopo un continuo trend in salita degli ultimi anni, la quota di donne che si è sottoposta nel 2020 allo screening cervicale nell’ambito dei programmi organizzati è passata dal 52% del 2019 al 46%; la copertura dello screening mammografico organizzato è passata dal 57% al 50%, e di quello colorettale, dal 42% al 36%. Lo screening mammografico è raccomandato ogni due anni alle donne di 50-69 anni, quello cervicale – Pap test o HPV test – è raccomandato rispettivamente ogni tre/cinque anni alle donne di 25-64 anni e lo screening colorettale è raccomandato ogni due anni a uomini e donne di 50-69 anni (attraverso la ricerca del Sangue Occulto nelle feci come test di primo livello e colonscopia come test di secondo livello nei casi positivi).
Ne parla un recente rapporto di un gruppo di lavoro dell’Osservatorio Nazionale Screening dal titolo Rapporto sui ritardi accumulati dai programmi di screening Italiani in seguito alla pandemia da Covid 19, con i dati al 31 Maggio 2021.
Sullo screening cervicale è necessaria una precisazione. Dal momento che l’HPV test viene proposto ogni cinque anni e non più ogni tre, è possibile, infatti, che la popolazione da invitare nel 2020 sia inferiore a quella del 2019, poiché riflette il numero di persone invitate ancora a Pap test o già ad HPV test rispettivamente nei tre anni precedenti, facendo sì che le persone invitate in più ad HPV test nel 2017 rispetto al 2016, passando a 5 anni invece che a 3, risultano come popolazione in meno da invitare nel 2020 rispetto al 2019.
In ogni modo, complessivamente da gennaio 2020 a maggio 2021 si osserva una riduzione rispetto all’anno precedente di oltre un milione e mezzo di inviti (1.575.164) pari a una riduzione percentuale del 28,4%. Si stima che questo si sia tradotto in un 35,6% di persone in meno invitate, 6 mesi di ritardo e 3.504 lesioni perse che avrebbero potuto essere individuate con la partecipazione allo screening.
Sullo screening mammografico, abbiamo registrato più di un milione di inviti persi (-20,3% rispetto al pre-pandemia), che si traduce in un 28% in meno di donne esaminate, 4,8 mesi di ritardo e 3.558 diagnosi che avrebbero potuto essere eseguite.
Per quanto riguarda infine lo screening colorettale si registra una riduzione rispetto al periodo pre-pandemico di più di due milioni di inviti pari a un -24,4%. Sono oltre un milione in meno gli uomini e le donne che hanno eseguito il test di screening (ricerca del sangue occulto fecale o rettosigmoidoscopia) pari ad una riduzione del 34,3%. Il numero di carcinomi colorettali che si stima essere stato diagnosticato in meno ammonta a 1.376 casi, mentre la stima degli adenomi avanzati persi è di 7.763 lesioni.
Tutte neoplasie che verranno individuate in fase più avanzata, provocando oltre alla sofferenza dettata da una diagnosi più tardiva, anche un maggiore dispendio di risorse per le terapie.
Come rileva una nota del sistema di sorveglianza PASSI dell’ Istituto Superiore di Sanità , si è allargata la forbice fra i gruppi sociali. Anzitutto si assiste a un gap geografico nord-sud. Nel Meridione si era già lontani dal garantire ai cittadini analoghe opportunità di accesso alla diagnosi precoce dei tumori: nelle regioni settentrionali la copertura totale dello screening cervicale arriva all’88%, contro il 69% nel Sud, quella dello screening mammografico all’86% in confronto al 61% del Sud, e quella dello screening colorettale al 69%, contro addirittura un 27% nel Meridione. Significativo anche il gradiente sociale fra le fasce di popolazione più svantaggiate che non si sottopongono a screening a fronte di una maggiore esposizione ad alcuni fattori di rischio comportamentali.