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cronaca

Come si misura l’economia russa? L’import-export, settore per settore

Per capire qual è il ruolo e la posizione della Russia, nella sua invasione dell’Ucraina, gli aspetti economici sono almeno altrettanto importanti di quelli politici. Guardare la bilancia commerciale permette di ottenere elementi importanti per capire gli sviluppi futuri. Nel primo articolo di questa serie guarderemo all’interscambio commerciale russo verso il resto del mondo, per poi allargare l’orizzonte a includere prima l’Ucraina e poi il resto delle nazioni che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica.

Il modo più semplice di descrivere l’economia russa è quella di una nazione che, come altre a medio livello di sviluppo, esporta soprattutto materie prime e con il ricavato in valuta pregiata – dunque meno soggetta alle fluttuazioni del rublo – acquista prodotti lavorati e semilavorati.

L’export russo è poi particolarmente concentrato in un settore, ovvero quello che include le forniture energetiche di petrolio, gas naturale e carbone. Secondo quanto mostrano i dati dell’Economic Complexity Observatory, che compila informazioni dettagliatissime su acquisti e vendite in moltissime nazioni del mondo, nel 2019 il 60% del valore complessivo di quanto esportato è ricaduto in questa categoria, per un ammontare totale di circa 240 miliardi di dollari. Per dare un’idea, il solo export di questa categoria di materie prime finanzia (persino con un piccolo avanzo) l’intero import russo.

Anche al di là dell’energia la Russia si concentra in larghissima parte sempre sulle materie prime, vendendo per esempio oro, platino, oppure anche grano per un ammontare che in ciascun caso va grosso modo dai 6 agli 8 miliardi di dollari.

I primi flussi significativi di prodotti lavorati o semilavorati rappresentano invece una parte ben più piccola dell’interscambio russo verso l’estero, e per citare qualche caso troviamo 2,3 miliardi in turbine a gas, oltre 6 miliardi in fertilizzanti, 2,2 miliardi in aerei, 1,6 miliardi in veicoli e loro parti. Valori dunque che contano soltanto un’unghia rispetto alle vendite di materie prime.

 

Come anticipato, la Russia usa i proventi del proprio export per acquistare soprattutto prodotti lavorati, spesso ad alta tecnologia, che non è in grado di produrre internamente. Parliamo tra l’altro di computer (3,3 miliardi), parti di macchinari da ufficio (2,4 miliardi), macchine pesanti (2 miliardi), oppure equipaggiamento per la trasmissione (6,7 miliardi), vari tipi di prodotti elettrici per diversi miliardi di euro. Oltre a questo troviamo auto per 11 miliardi e relative parti per 8, 10 miliardi di dollari in prodotti farmaceutici, e così via.

 

Nella visualizzazione che segue è possibile consultare al massimo livello di dettaglio disponibile il valore dell’interscambio commerciale della Russia nel 2019, settore per settore.

 

 

L’estrema concentrazione del commercio russo è allo stesso tempo un punto di debolezza e un punto di forza. In teoria essa dovrebbe rendere più facile per la comunità internazionale isolare la Russia in una situazione come questa, quando essa ha unilateralmente deciso di dichiarare una guerra offensiva contro una nazione molto più piccola come l’Ucraina.

Eventuali sanzioni economiche contro il settore delle materie prime energetiche avrebbero effetti estremamente seri sulla capacità russa di ottenere valuta pregiata. Si tratta di un fattore ancora più importante in un momento in cui il rublo ha perso in pochi giorni una parte significativa del proprio valore, e le autorità economiche del paese hanno dovuto correre ai ripari per limitarne l’abbandono anche da parte dei russi stessi.

 

Allo stesso tempo una porzione dell’export di tali materie prime, e in particolare del gas naturale, è diretto proprio verso l’Europa, il che rende l’unione dipendente dalla Russia per attività fondamentali come, fra l’altro, il riscaldamento. Per questa ragione le sanzioni internazionali emanate finora, pure molto dure, non hanno riguardato direttamente proprio il settore più importante dell’economia russa.

La possibilità di una chiusura delle forniture dei gas, in caso di ulteriore inasprimento delle relazioni fra Russia e occidente, non è da escludere, per quanto essa avrebbe ovviamente effetti negativi su tutte le parti coinvolte. L’Europa rinuncerebbe a una quota significativa del proprio import di gas, la Russia a una fondamentale del proprio attivo commerciale. Nel breve termine per l’unione non è neppure pensabile di sostituire le forniture russe con altre fonti, il che rende la posizione negoziale dell’Europa ancora più complicata.

Per restare solo all’Italia, secondo quanto scrivono Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su lavoce.info riprendendo dati del ministero della transizione ecologica, “In Italia il consumo totale di gas naturale ammonta a 71,5 miliardi di Smc (metri cubi standard); il settore residenziale assorbe la maggior parte della disponibilità di gas, con una percentuale pari al 44 per cento del totale dei consumi, seguito dal settore termoelettrico (36 per cento) e da quello industriale (20 per cento). La domanda di gas naturale è soddisfatta per circa il 5 per cento dalla produzione nazionale e per la parte restante dalle importazioni. Nell’anno 2019 sono stati importati in totale 71 miliardi di Smc di gas, utilizzati in parte per soddisfare i consumi e per il resto accantonati nei siti di stoccaggio”.

I principali esportatori di gas verso il nostro paese sono appunto la Russia (33,4 miliardi Smc, il 46% del totale), e poi molto più indietro Algeria (13,4 miliardi) e Qatar (6,5 miliardi).

Prima ancora di preoccuparsi dei maggiori costi”, scrivono gli autori, “che sicuramente ci saranno e che rappresenteranno il prezzo della fermezza dell’Europa di fronte alla violazione del diritto internazionale – ci si può chiedere come il nostro paese potrebbe coprire l’eventuale buco della mancata fornitura di 33 miliardi di Smc russo. Il governo ha deliberato di incrementare la produzione nazionale, che dovrebbe arrivare a 6,5 miliardi di Smc e che andrebbe a beneficio delle imprese energivore e alle piccole e medie imprese. Ciò ridurrebbe il fabbisogno residuo dell’industria a 7,5 miliardi. L’altro capitolo su cui intervenire è la generazione elettrica. Anche se è difficile fare previsioni, o meglio ancora congetture, il governo ha fatto capire di essere pronto a riattivare le centrali a carbone in fase di dismissione (dovrebbe essere completata entro il 2025). Simulazioni preliminari svolte dai ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei indicano un significativo cambiamento del mix elettrico, con la riduzione della quota del gas di 10 punti percentuali compensata da un aumento sia del carbone di 2 punti che delle fonti rinnovabili di 7 punti percentuali. Resta poi da coprire il consumo del settore residenziale, per il quale misure volontarie o obbligate di risparmio energetico potrebbero aiutare a ridurre i volumi da soddisfare mediante maggiori importazioni dalle altre provenienze geografiche e dal Gnl”.

Ma, conclude il post, certamente la maggiore produzione nazionale non può essere attivata in breve tempo e lo stesso vale per l’espansione delle rinnovabili.