Dopo i lockdown del 2020, cinque servizi educativi per l’infanzia su cento non hanno più riaperto nell’anno scolastico 2020/2021. Nel 44% dei casi si è trattato delle Sezioni Primavera, i cui iscritti sono dovuti rimanere a casa con i genitori, che nella maggior parte dei casi si sono trovati a dover gestire i piccoli e il proprio lavoro. Il tutto in un contesto italiano dove il tasso di copertura dei servizi per la prima infanzia è molto al di sotto di quanto richiesto dall’Europa. Se consideriamo anche i servizi integrativi, abbiamo 26,9 posti ogni 100 bambini, con una distribuzione fortemente disomogenea fra aree urbane e rurali. La Commissione Europea nel 2002 aveva fissato l’obiettivo di almeno 33 posti autorizzati ogni 100 bambini tra 0 e 3 anni.
Le conseguenze per le donne le conosciamo bene.
Il Dipartimento per la Famiglia grazie al lavoro congiunto di ISTAT e Università Da’ Foscari, ha condotto nell’estate 2021 una prima indagine su oltre 1400 strutture per l’infanzia in tutta Italia, che è stata pubblicata il 7 marzo scorso, chiedendo ai gestori che tipo di azioni avevano messo in campo per contrastare la pandemia, quali difficoltà avevano affrontato, quali sono stati i costi aggiuntivi, quali gli aiuti ricevuti da enti pubblici e privati e quanto la pandemia si sia tradotta in spese aggiuntive per le famiglie.
Nel complesso, sebbene la metà delle strutture educative per la prima infanzia afferma di aver avuto, nel corso dell’anno educativo 2020/2021, casi di Covid accertati tra il personale e/o tra i bambini, solo nel 10% dei servizi educativi infatti sono state disposte sospensioni per l’intera struttura in relazione al verificarsi di questi casi. Ma solo sei servizi su dieci non hanno mai sospeso il servizio, e in grossa parte dei casi i costi di gestione sono lievitati sensibilmente, per la necessità di personale aggiuntivo dovendo garantire gruppi con meno bambini, e per la forte riduzione delle iscrizioni dovuta alla paura del contagio. L’indagine riguardava sia i servizi cosiddetti Consolidati cioè gli asili nido, i micronidi, i nidi aziendali e le Sezioni Primavera, sia i servizi integrativi come gli asili domestici riconosciuti.
Quanto sono aumentati i costi
Il 67% dei gestori ha evidenziato un aumento “consistente” o “molto consistente” dei costi di gestione. La metà delle strutture ha dovuto assumere nuovo personale al fine di garantire l’attività educativa e il risultato è che il 29% dei referenti ha rimodulato le tariffe di accesso al servizio. Una scelta dovuta che solitamente si traduce in un aumento dei costi per le famiglie, ribaltando su di esse almeno parte dell’aumento dei costi di gestione e della riduzione del numero di bambini accolti. La metà dei referenti ha deciso di comprimere invece l’offerta, riducendo per esempio gli orari. La riduzione del numero dei bambini è avvenuta in meno di un terzo dei servizi, la riduzione dell’orario di apertura nel 27%, la riduzione del numero delle Sezioni nel 9%, mentre le riduzioni del personale solo nel 6% dei servizi.
Non è esplicitata dall’indagine la consistenza di questi aumenti. Tuttavia, una recente indagine di AltroConsumo, condotta su un campione di 145 Asili nido privati nell’ottobre 2020, aveva rilevato un aumento delle tariffe in metà dei servizi, nessuna modifica nel 43% e una riduzione solo nel restante 7%. Questa indagine, chiaramente condotta su un campione troppo esiguo per poter generalizzare, ma che comunque ci aiuta a inquadrare un potenziale problema, aveva stimato l’aumento delle tariffe per la gestione di un bambino di un anno e mezzo in un asilo privato, senza convenzione con il Comune, e per tutti i giorni della settimana, pasti inclusi. Se prima della pandemia la famiglia spendeva 541 euro al mese per la frequenza in una fascia oraria tra le 4 e le 6 ore, nel 2020-2021 ne spendeva 557. Dalle 6 alle 8 ore quotidiane si passava da 587 euro a 608 euro e da 680 euro a 696 euro al mese.
I contributi statali e non
“Un terzo delle strutture che ha rilevato un aumento dei costi da “consistente” a “molto consistente” dichiara di non aver ricevuto contributi straordinari, rendendo evidente che a livello nazionale questi contributi, pur importanti e presenti, non sempre hanno raggiunto la platea in sofferenza dei servizi” si legge. “Per contro anche una parte di servizi che dichiarano di non aver avuto aumenti di costi né di gestione né straordinari sono stati beneficiari di contributi straordinari.”
Dai dati raccolti risulta che, sul totale dei servizi intervistati, il 31% ha ricevuto contributi dallo Stato, il 32% dalle Regioni e il 22% da Enti comunali e sovracomunali. Le differenze comunque sono copiose: nel Mezzogiorno solo poco più del 7% dei servizi ha giovato di flussi di finanziamento straordinari da parte degli enti comunali e sovracomunali, una percentuale molto diversa dal 29% del Nord e dal 18% del Centro Italia. In altri termini, il 19% delle strutture che hanno ricevuto contributi straordinari nel Mezzogiorno li hanno ricevuti solo dallo stato, al Nord questo è avvenuto in meno di una struttura su dieci, molto più presenti in quell’area del paese le altre amministrazioni territoriali.
Il futuro
Non possiamo dire che il sistema non si sia rivelato resiliente nel far fronte a un’emergenza senza precedenti. Tuttavia, bisognerà ampliare lo sguardo e quantificare con più precisione quanto le difficoltà abbiano colpito in maniera diseguale un sistema già diseguale “interessando in maniera particolare la componente privata del sistema dei servizi educativi che copre però quasi il 50% dell’offerta, in particolare al Mezzogiorno dove storicamente si stanno sviluppando con più fatica le opportunità educative per i più piccoli. Ma anche quanto la pandemia abbia influenzato i comportamenti dei neo-genitori già a volte poco propensi all’utilizzo di servizi educativi strutturati ed ora chiamati ad affrontare un ulteriore stress legato all’utilizzo di un servizio collettivo con una collegata percezione di pericolosità”.
Inoltre, senza investimenti importanti sui servizi per la prima infanzia, non si potrà mai affrontare con serietà il tema caldo dell’occupazione delle giovani donne. Oggi la metà delle donne con due o più figli fra i 25 e i 64 anni non lavora. E fra le coppie giovani che hanno figli solo nel 28% dei casi lavorano entrambi i partner a tempo pieno.