Meno della metà delle donne che ha abortito volontariamente nel 2020 è regolarmente occupata, una su cinque è una casalinga, un’altra è disoccupata, con un gap nord-sud palese: il 30% delle donne delle regioni del sud è occupata, dal 21 al 25% è disoccupata ma lavorerebbe, il 30% è casalinga. Il 36% delle donne che ha abortito volontariamente sono sposate, oltre il 40% al sud. Il fenomeno delle IVG fra studentesse è tutto sommato marginale: non si supera il 10%, e in generale il 6,5% delle IVG oggi avviene fra minorenni; il 43% ha meno di 30 anni, il 12% più di 40 anni, dove statisticamente sono più alte le probabilità di IVG per ragioni di salute.
Il Ministero della Salute ha pubblicato i dati definitivi sulle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) del 2020: un totale di 66 mila interventi, uno su tre farmacologico. Sono numeri in continuo calo negli ultimi 30 anni: nel 2020 hanno abortito 5,4 donne ogni 1000 fra i 15 e i 49 anni. Erano 15 donne su 1000 nel 1985, 9,5 nel 2001. Si tratta di 165 IVG ogni 1000 nati vivi, meno della metà di 30 anni fa e molti meno dei 235 per 1000 di vent’anni fa.
Dati che mancano
È complesso fare delle considerazioni generali di carattere economico-sociale. Tassi più bassi di IVG – per esempio al sud rispetto al nord – non significano necessariamente un dato positivo. Possono voler dire che meno donne si sentono supportate in questa scelta, in famiglia o nella propria cerchia sociale o hanno la possibilità concreta di accedere a una struttura. Bisogna fare attenzione, sempre, a leggere dati di esito comportamentale come assoluti rispetto a un comportamento. I sondaggi in questo potrebbero venire in aiuto. Per considerazioni veramente data-driven sarebbe interessante per esempio chiedere alle donne se hanno mai avuto intenzione, anche dentro di sé, di abortire.
Un indicatore utile per correlare l’IVG con la vulnerabilità sociale è il numero di aborti volontari precedenti: il 75,5% che si sono sottoposte a IVG nel 2020 era al primo aborto, il 18% ne aveva avuto già un altro, mentre l’8% era al secondo, terzo, quarto aborto. Anche qui però sarebbe interessante avere un dato a livello almeno provinciale.
Il Gap nell’aborto farmacologico
Qualcosa su cui invece si può – si deve – riflettere, sono i servizi offerti.
Un dato interessante che emerge dalla relazione del Ministero riguarda il metodo di IVG utilizzato. Si riscontrano infatti differenza geografiche anche importanti riguardo l’accesso all’aborto farmacologico, che ha visto un a crescita sostanziale a partire da settembre 2020 (20.902 IVG: il 42% del totale nell’ultimo trimestre 2020 contro il 29% del primo trimestre), dopo che il 12 agosto dello stesso anno è stata pubblicata la Circolare di aggiornamento delle Linee di indirizzo sulla IVG con Mifepristone e prostaglandine.
Un recap: in Italia esistono due tecniche per eseguire una interruzione volontaria di gravidanza: la chirurgia o il metodo farmacologico. L’intervento chirurgico viene effettuato in day hospital, in sala operatoria, con anestesia. Ci sono due metodi: l’’isterosuzione e il raschiamento: nel primo caso, a cui si può accedere solo prima dell’ottava settimana di gestazione, si aspira con una piccola cannula il tessuto gravidico; il raschiamento invece prevede l’eliminazione dei frammenti di endometrio da togliere, tramite un bisturi. Il metodo farmacologico, accessibile entro la nona settimana, non richiede ricovero e avviene a livello ambulatoriale in due fasi: si assume il Mifepristone (Ru486) che interrompe la gravidanza e dopo 48 ore un analogo delle prostaglandine, che aiuta il distacco e l’espulsione, che si presenta come una mestruazione.
Nel 2020 l’aborto farmacologico è stato proposto al 35% delle donne, il 55,8% si è sottoposto a intervento di isterosuzione e l’8,6% al “classico” raschiamento. Come si diceva, la differenza è ancora molta: se consideriamo Mifepristone + prostaglandine si va dall’1,9% del Molise e il 6,6% di Bolzano, al 13% dell’Abruzzo al 16,8% del Veneto, fino a regioni come Piemonte e Basilicata dove si supera il 50% delle IVG.
“Mai dati” i dati sull’obiezione di coscienza
Infine, c’è la questione sempre calda in Italia dell’obiezione di coscienza. La relazione riporta dei dati in merito a livello regionale, che tuttavia sono sicuramente sottostimati. Ne abbiamo parlato pochi giorni fa con le autrici di un libro-inchiesta Mai Dati, Dati aperti (sulla 194) di Chiara Lalli e Sonia Montegiove (potete rivedere l’intervista qui). Le autrici hanno provato a mappare la reale presenza di medici ginecologi, anestesisti e operatori sanitari obiettori in tutti i centri d’Italia, tramite un accesso civico – il famoso FOIA che spesso abbiamo usato anche noi di Infodata – chiedendo cioè alle pubbliche amministrazione di condividere i dati. Ne è risultata una prima mappa che ha mostrato chiaramente che le cifre sono sottostimate: vi sono infatti molti specialisti che pure non essendo espressamente obiettori, di fatto non praticano IVG. L’inchiesta ha individuato 31 strutture (24 ospedali e 7 consultori) con il 100% di obiettori di coscienza, a cui se ne aggiungono quasi 50 con una percentuale superiore al 90% e più di 80 con un tasso di obiezione superiore all’80%. Il problema è che la Relazione ministeriale non fa emergere, pubblicando i dati chiusi e aggregati per Regione, il dettaglio territoriale, che permette di capire veramente dove manca il servizio che possa garantire il diritto all’IVG.