Un giorno imprecisato dell’anno 1771 il cavaliere Jean-Charles de Borda venne colto da un dubbio pungente che lo avrebbe costretto a una serie di intense e tortuose riflessioni. Quello stesso giorno – per quanto se ne può presumere – il cavaliere balzò in piedi, si precipitò allo scrittoio, intinse la sua penna d’oca nel calamaio e prese a vergare alcune, poche righe rivelatrici, che sarebbero apparse circa dieci anni più tardi nella Histoire de l’Académie Royale des Sciences sotto il titolo di Mémorie sur les élections au scrutin. Cosa aveva potuto turbare Borda fino a questo punto? Qualcosa che sortirà, forse, il medesimo effetto sul lettore di questo articolo: il voto a maggioranza, per secoli applicato alle deliberazioni di consessi cittadini, assemblee senatoriali e conclavi come massimo principio di verità, giustizia e rispetto delle volontà dei singoli, non è affatto impeccabile. Tutt’altro. Il criterio della maggioranza non sempre, o quasi mai – il che significa: solo sotto condizioni stringenti e al limite dell’inapplicabilità – esprime l’effettiva volontà dell’elettorato. Bizzarro? Basterà un esempio per rispondere.
Immaginiamo cento cardinali riuniti in conclave per designare un nuovo pontefice. I papi viengono eletti per scrutinium, criterio che richiede una maggioranza di almeno i due terzi dei voti espressi (questi vengono registrati su una scheda in forma rigorosamente anonima, depositati in un’urna e manifesti solo a Dio fino al momento del loro spoglio). Ora, tralasciamo la regola della maggioranza qualificata e applichiamo il criterio della maggioranza semplice. I cardinali votano, indicando sulla propria scheda il nome di uno solo dei ‘papabili’ tra Orsini, Cienfuegos Villanzón e Piazza (i nomi sono stati scelti casualmente fra quelli dei cardinali che parteciparono al conclave del 1724, in seguito alla morte di Innocenzo XIII). Immaginiamo che al termine dell’ultimo e risolutivo scrutinio emerga la seguente graduatoria:
Orsini: 44 voti
Cienfuegos Villanzón: 38 voti
Piazza: 28 voti
Nel rispetto della maggioranza Orsini con 44 preferenze viene eletto papa. Ma siamo certi che ciò esprima esattamente la volontà dei cento cardinali? Parrebbe ragionevole rispondere di sì, ma Borda intuì ciò che per secoli era sfuggito a molti se non a tutti. Egli notò, infatti, che in un confronto a maggioranza gli elettori non tengono conto soltanto della loro prima scelta – vale a dire di quella che riceverà ufficialmente il loro voto -; essi, piuttosto, essi confrontano i candidati gli uni con gli altri, disponendoli in una classifica e scegliendo, infine, il più gradito. L’idea di ‘prima scelta’ implica, in effetti, una seconda scelta; questa ne implica a sua volta una terza, e così via. Se si accetta questo, allora conviene domandarsi: come sarebbero stati disposti i tre cardinali in una ipotetica graduatoria dai membri del conclave? Per pura supposizione, consideriamo la tabella seguente (in cui il segno > sta a indicare ‘preferito a’):
44 elettori: Orsini > Piazza > Cienfuegos Villanzón
38 elettori: Cienfuegos Villanzón > Piazza > Orsini
28 elettori: Piazza > Cienfuegos Villanzón > Orsini
Orsini è la prima scelta di 44 elettori, ma è la scelta residuale, dunque l’ultima opzione, la meno gradita di ben 66 elettori. Il voto a maggioranza ha, per così dire, occultato la struttura delle preferenze individuali, favorendo un candidato sgradito ai più. Paradossale, no? Per risolvere l’inconveniente, Borda suggerì di attribuire a ciascun candidato un punteggio che tenesse conto in modo esplicito dei suoi piazzamenti e, perciò, delle (vere) preferenze degli elettori. Chi sarebbe stato eletto dai cento cardinali con questo nuovo metodo? La tabella n.2 contiene tre graduatorie. In ciascuna di esse assegniamo tre punti al primo classificato, due al secondo e uno al terzo. Poi, sommiamo i punti totali di ciascun candidato e stabiliamo il vincitore.
Orsini risulta 44 volte primo e 66 volte ultimo, totalizzando 198 punti (44 x 3 + 66 x 1); Cienfuegos Villanzón ottiene 214 punti (38 x 3 + 28 x 2 + 44 x 1), mentre a Piazza spettano ben 248 (82 x 2 + 28 x 3). La graduatoria finale, secondo Borda, è pertanto: Piazza (primo), Cienfuegos Villanzón (secondo), Orsini (terzo). Un esito completamente rovesciato rispetto al verdetto iniziale.
Borda aveva colto alcune sostanziali falle del voto a maggioranza, ma la soluzione da lui escogitata era tutt’altro che perfetta. Per cominciare, questa presupponeva che le preferenze degli elettori fossero oggettivabili in un punteggio e perfettamente comparabili. Ciò è assai discutibile, poiché un punto attribuito da un elettore potrebbe esprimere una preferenza più o meno intensa di un punto attribuito da un altro elettore: le mie unità di merito potrebbero avere un peso differente dalle tue. Un secondo problema è che il metodo di Borda apre facilmente al voto strategico: alcuni elettori, vale a dire, potrebbero assegnare alti punteggi a certi candidati, solo per evitare l’elezione di altri candidati fortemente sgraditi. Inoltre, gli elettori potrebbero non essere in grado di formulare una graduatoria completa; oppure, potrebbero verificarsi dei pareggi, e in questo caso a quale metodo si dovrebbe ricorrere per stabilire il vincitore? Infine, scenario non certo augurabile, il candidato eletto potrebbe avere ottenuto buoni piazzamenti senza essere il favorito di nessuno.
Nella Parigi del diciannovesimo secolo le critche di Borda al criterio della maggioranza suscitarono scalpore e un acceso dibattito tra eruditi. Tra coloro che più di tutti presero a cuore la questione fu Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet. Egli mostrò alla comunità dei matematici parigini un secondo paradosso, noto come «ciclicità delle preferenze». Ecco un esempio. Immaginiamo che Paolo, Maria e Francesca, decidano di votare l’alternativa migliore tra le opzioni per il loro dopocena: pub, teatro, un vernissage serale. Rispettosi dei valori democraitci, i tre votano a maggioranza. E gli ordinamenti di preferenza risultano essere questi:
Paolo: vernissage > teatro > pub
Maria: teatro > pub > vernissage
Francesca: pub > vernissage > teatro
Due su tre preferiscono il vernissage al teatro, e sempre due su tre preferiscono il teatro al pub. Il vernissage è acclamato a maggioranza! Tuttavia… Maria e Francesca protestano. Perché? Condorcet commenterebbe che Maria e Francesca hanno ragione a protestare. Se è vero, infatti, che il vernissage è preferito a maggioranza al teatro e il teatro è preferito al pub, è altrettanto vero che il pub è, in ben due casi, preferito al vernissage: il voto a maggioranza ha generato un ciclo.
Condorcet aggiungerebbe in gergo matematico,che «i voti a maggioranza sono intransitivi»: se a è preferita a b e b è preferita a c, non necessariamente a è preferita a c.
Può ben succedere, come mostra l’esempio, che non si possa stabilire un ordine tra opzioni alternative. Esiste, dunque, una soluzione alla ciclicità? Il nostro marchese propose un metodo alternativo a quello di Borda – su cui non mi dilungherò – nel quale, tuttavia, persistevano difetti non tarscurabili, in quanto non garantiva che vi fosse in ogni caso un vincitore, né assicurava che l’eletto fosse la prima scelta del maggior numero dei votanti. Il metodo di Condorcet poteva favorire, in altre parole, candidati di compromesso che non erano, però, i preferiti di nessuno.
Dovette trascorrere più di un secolo perché venisse fornita una risposta conclusiva a questi rompicapo. Nel 1951 l’economista Kenneth Arrow dette matematica dimostrazione che emendare il criterio della maggioranza dalle sue pecche non era possibile. O, più precisamente, egli dimostrò che in generale non è possibile elaborare un criterio di scelta sociale aciclico e pienamente democratico, se le opzioni in gioco sono più di due.
Egli partì ponendo quattro condizioni che, ragionevolmente, ogni sistema democratico di voto deve rispettare. Vediamole.
- La prima, detta del «dominio universale e illimitato: non è ammissibile alcuna limitazione a priori delle preferenze individuali; ciascuno può ordinare le opzioni esistenti come meglio ritiene, senza imposizioni o divieti. Si tratta di una condizione non sempre soddisfatta nella realtà, dato che alcuni ordinamenti di preferenza possono essere esclusi per motivi religiosi o costituzionali.
- La seconda, della «monotonicità» o «principio di Pareto debole»: prese due alternative x e y, se tutti gli individui prefriscono x a y, allora x deve risultare preferita a y anche a livello sociale.
- La terza, l’«assenza di dittatore» o la «sovranità del cittadino»: non dev’esservi alcun soggetto – individuo o autorità – in grado di imporre socialmente le proprie scelte, quali che siano le preferenze degli altri individui.
- La quarta o della «indipendenza dalle alternative irrilevanti»: la scelta tra due alternative x e y deve tenere conto solo di queste. Può apparire banale, ma può darsi il caso che alcuni elettori dichiarino di preferire una terza alternativa, z, solo per impedire a y di vincere il confronto con x, qualora y sia a loro particolarmente sgradita. Questa condizione richiede, cioè, che gli elettori esprimano in modo veritiero le loro preferenze.
Si tratta di un concetto di democrazia incontrovertibile secondo ragione: esso richiede, infatti, che il meccanismo di scelta rispetti la libertà individuale e le decisioni unanimi, e che non sia condizionato dalla presenza di un dittatore o da comportamenti strategici o disonesti. Arrow dimostrò, tuttavia, che non esiste alcun sistema di voto capace allo stesso tempo di rispettare tutte e quattro queste condizioni e produrre un ordinamento sociale aciclico, vale a dire una scelta. Qualsiasi tentativo di aggregare le preferenze di un gruppo in una decisione collettiva viola almeno una delle condizioni che definiscono la democrazia nella sua forma ‘pura’. Arrow pose, così, una pietra tombale sulle pretese di Borda e Condorcet – e di altri prima di loro – di formulare criteri di decisione sociale allo stesso tempo razionali e democratici, in grado di tutelare pienamente le libertà individuali e la giustizia.
La definizione ideale di democrazia, occorre chiarire, è posta in termini tanto razionali quanto stringenti: il fatto che le quattro condizioni di Arrow non trovino mai una completa applicazione non significa che i sistemi di voto di cui disponiamo non siano desiderabili o non possiedano una loro ‘perfezione’ pratica. Il suffragio universale e il criterio della maggioranza tutelano, nei limiti del possibile, le volontà dei singoli e dei gruppi, consentono la partecipazione democratica- in un senso di ‘democrazia’ forse non ideale ma pur sempre fattuale e concreto – determinando un grado di libertà nel confronto politico e civile che non si dà ovunque nel mondo.
(Gran parte degli argomenti di questo articolo è tratta da Matematica della democrazia, di George G. Szpiro, Bollati Boringhieri, 2022.)
Un grafico e un libro è una nuovo rubrica che esce tendenzialmente il venerdì ma non è detto tutti i venerdì. Come la possiamo definire? Una recensione con didascalia intelligente.