Uno dei primi atti del nuovo Ministro della Salute Schillaci è stato decidere di pubblicare i dati sui nuovi casi, ricoveri e decessi per COVID non più giornalmente ma settimanalmente, ogni venerdì. La scelta ha portato con sé una polemica, che ha visto da più parti sollevarsi voci critiche, alcune addirittura allarmate, circa le possibili conseguenze e le ragioni, di questa decisione, percepita come un passo indietro rispetto ai risultati così faticosamente raggiunti in termini di condivisione dei dati.
Avere i dati su COVID ogni giorno rispetto alle 24 ore precedenti, è certamente stato qualcosa di utile e unico nella storia italica. Con molti colleghi giornalisti abbiamo tenuto il punto per mesi con le istituzioni, a livello locale e nazionale, per non permettere nessun passo indietro. Per poter garantire al cittadino un accesso ai dati che significavano per lui restrizioni, divieti, grossi sacrifici. La democrazia passa anche per la condivisione dei perché delle decisioni collettive, e su questo continuiamo a tenere il punto. Eppure, non significa che sia una tragedia decidere di pubblicare i dati settimanalmente. Tenere il punto significa continuare a monitorare come e quando li raccogliamo questi dati, e dunque la loro precisione. Sei i numeri sono precisi, e sono raccolti giornalmente, allora non sarà la pubblicazione settimanale a creare un problema, specie in termini di comportamenti collettivi e quindi di rischio. Da quanto si nota dall’ultimo bollettino, i dati sembrano essere raccolti giornalmente, e vengono presentati in tabelle suddivise per giornata. Anche la dashboard della Protezione Civile riporta il dato giornaliero, seppur retrospettivo, cioè bisogna attendere il venerdì per vedere comparire i sette giorni precedenti. Lo stesso avviene sulla pagina di Github della Protezione Civile, che riporta i file .csv, cioè in formato aperto. Abbiamo passato anni a ribadire – almeno, noi di Infodata – che non conta il dato giornaliero per valutare un andamento, ma serve almeno una sintesi settimanale, per capire come stanno andando le cose.
La vera domanda è un’altra. Quello che viene a essere impattato è il monitoraggio di sintesi a livello europeo, condotto per esempio dall’ECDC e dall’OMS. Se ogni paese inizia a condividere i dati settimanalmente o comunque con cadenza non giornaliera, sarà più complesso avere un dato di sintesi a 7 e 14 giorni – che è quello che viene contato per esempio dall’OMS – solido.
La curiosità è capire perché si passa a una comunicazione settimanale. È un tema di risorse umane? Negli statement ministeriali questo non è chiaro. Nel comunicato si parla di “indicazioni prevalenti in ambito medico e scientifico” non meglio specificate che che giustificherebbero tale scelta nell’ottica di un “ritorno alla normalità”. Una spiegazione inesistente, insomma, dato che alla normalità siamo tornati ormai da tempo, e dato soprattutto che come condizione generale, normalità non deve significare meno dati. Si chiarisce invece che si procederà in questo modo “fatta salva la possibilità per le autorità competenti di acquisire in qualsiasi momento le informazioni necessarie al controllo della situazione e all’adozione dei provvedimenti del caso”. Insomma, se la situazione dovesse tornare critica, si valuterà come procedere.
La questione di principio è quindi sacrosanta. Fare passi indietro quando avevamo iniziato a fare bene è un’occasione persa, ma da qui ad attribuire a questa scelta conseguenze pratiche a priori, ce ne passa. Il dato settimanale è sufficiente per monitorare un’epidemia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stessa pubblica bollettini epidemiologici settimanali per le principali epidemie in corso nel mondo (per esempio in Africa). Quello su cui dobbiamo essere inflessibili è il valore dei Dati Aperti, degli open data, cioè la possibilità di accedere ai dati disaggregati in un formato utilizzabile, come ha fatto la Protezione Civile in questi mille giorni.
Insomma, attenzione agli specchietti per le allodole. Rimaniamo invece cani da guardia attenti sulla qualità dei dati sanitari.