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L’inganno delle macchine e l’AI verosimile (Parte 2) #ungraficoeunlibro

Qui trovate la prima parte  dell’intervista a Simone Natale autore di Macchine ingannevoli. Comunicazione, tecnologia, intelligenza artificiale (Einaudi, 2022). Qui invece la seconda parte. Buona lettura.

In che senso è lecito parlare di «intelligenza», quando ci riferiamo ai dispositivi tecnologici? Possiamo supporre che le macchine con cui interagiamo siano dotatedi una coscienza? In definitiva, le macchine pensano?

L’uso della parola “intelligenza” è in un certo senso il peccato originale di quella branca dell’informatica chiamata intelligenza artificiale. Il problema è che l’intelligenza, come intuì Alan Turing già a metà Novecento, è un concetto sfuggente. Possiamo immaginare facilmente che altri esseri umani quindi abbiano, al pari di noi, una propria intelligenza e coscienza; ci basta proiettare quella che è la nostra esperienza sugli altri. Ma se prendiamo un neonato o un qualunque animale, siamo persi: ci è difficile immaginare cosa succede nella loro testa, che cosa e soprattutto come pensano, se sono coscienti nello stesso modo in cui lo siamo noi. Perciò, anche qualora le macchine raggiungano forme di intelligenza e coscienza davvero comparabili a quella umana, sarebbe quasi impossibile capirlo.
Allo stato attuale, la quasi totalità degli studiosi confermerebbe che non esistono ancora forme di coscienza artificiale paragonabili alla coscienza umana. Chi afferma il contrario può essere paragonato agli scienziati che negano il fenomeno del riscaldamento globale: esistono, ma sono pochi e screditati. Questo non significa che in futuro non potranno emergere forme di coscienza artificiale; tuttavia non esistono delle prove che dimostrino la possibilità di raggiungerla. Se questo accadrà, si tratterà di tecnologie molto diverse da quelle che utilizziamo oggi. Infatti, anche un programma come GPT-3, in grado di completare con successo un esame universitario e di scrivere un articolo giornalistico, è stupefacente ma rimane in grado di manipolare soltanto il linguaggio umano; e a mio parere pensare che il segreto della coscienza sia nascosto nelle parole che usiamo per esprimerci, svuotate delle emozioni e dei ragionamenti entro cui nascono e raggiungono gli altri, è un’illusione, per quanto affascinante.

Neuralink, azienda fondata, tra gli altri, dall’ineffabile Musk, ha (di nuovo) annunciato la ripresa della sperimentazione di chip neurali, dispositivi impiantabili che consentono al cervello di comunicare direttamente con le macchine. Si tratterebbe di una perfetta fusione tra intelligenza artificiale e intelligenza umana. Crede che anche in questo caso troverebbe spazio l’inganno banale di cui parla il suo saggio?

L’idea di impiantare un chip nel cervello è da sempre materiale per la fantascienza, ma si dovrà capire se le persone sono disposte a sottoporsi a tecnologie così invasive. La storia ci insegna che il successo di una tecnologia non si fonda solo sulle sue potenzialità tecniche, ma anche sulle dinamiche sociali e culturali che accompagnano la sua diffusione. Ad esempio, uno dei problemi che portarono al fallimento degli occhiali “intelligenti” prodotti da Google, i Google Glass, fu il fatto che chi li indossava si sentiva a disagio per come veniva percepito da chi gli stava intorno. Allo stesso modo uno degli ostacoli alla diffusione delle automobili a guida automatica è convincere la gente a fidarsi dei computer alla guida. I chip neurali dovranno vincere le resistenze di chi non ha piacere all’idea di impiantarsi qualcosa nel cranio; se riusciranno a superarle, potranno affermarsi come una tecnologia di uso comune. Saranno invece sicuramente utili per aiutare la vita di persone con disabilità, permettendo ad esempio di comunicare con l’ausilio del chip a chi ha difficoltà a farlo in altri modi. Si tratta infatti di dispositivi per controllare i propri apparecchi elettronici, in altre parole per interfacciarci con i computer; non un cervello artificiale, dunque, ma uno strumento per mettere in collegamento il cervello ai computer, un’evoluzione in questo senso del mouse e della tastiera. Non parlerei perciò di fusione tra intelligenza artificiale e intelligenza umana, quanto di strumenti che ci permettano di usare in maniera più efficiente queste tecnologie, in continuità con l’obiettivo di aumentare le facoltà umane attraverso interfacce digitali, che è lo scopo fondante dell’area di ricerca della human-computer interaction, ovvero interazione umano-computer.

L’inganno banale riguarda il modo in cui noi umanizziamo la tecnologia; ma si può sostenere che la tecnologia, in qualche misura, ci rende umani?

C’è una scena famosa di 2001: Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubrick, in cui gli uomini primitivi fanno un salto evolutivo quando uno di loro comincia a maneggiare un osso come una clava, dunque come uno strumento. Si tratta di una metafora per parlare del rapporto tra umano e tecnologia, e in effetti grandi antropologi e studiosi della cultura, come Gregory Bateson e Clifford Geertz, hanno dimostrato che la tecnologia è parte integrante dell’essere umano: la nostra evoluzione è stata biologica e al tempo stesso tecnica, il che ha portato anche a risultati inquietanti, come il riscaldamento globale, ma questa è un’altra storia. In questo senso l’uso della tecnologia non è inumano; possono essere inumani però determinati usi della tecnologia, come le applicazioni militari dell’intelligenza artificiale e della robotica. Io credo che la tecnologia ci possa rendere più umani solo nella misura in cui manteniamo pieno controllo su di essa; in questo senso è importante che il lavoro di aziende, designer, programmatori e anche politici e legislatori sia volto a garantire che questa esigenza venga rispettata. È fondamentale, ad esempio, costruire strumenti, tecnici e legislativi, che ci permettano di riconoscere in ogni situazione quando stiamo dialogando con un programma e non con una persona. Questo per non ritrovarci a vivere in un mondo simile a quello di Ellen, la protagonista della storia con cui abbiamo aperto questa discussione. Perché a volte è un bene che la fantascienza rimanga quello che è: un racconto di finzione.

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