Se un uomo non lavora, o lavora part time pur essendo abile a un lavoro a tempo pieno, è uno scansafatiche; se lo fa una donna, anche senza figli ma magari sposata, rientra in ciò che ci si aspetta.
L’8 marzo si celebra, fra le altre cose, l’importanza di impegnarsi come politica e come società civile per assottigliare sempre di più il divario fra occupazione maschile e femminile e di reddito da lavoro fra i generi. In Italia le donne partecipano ancora molto meno al mondo del lavoro degli uomini. Tradotto, significa che le donne che non lavorano non possono contribuire con il loro salario né al proprio mantenimento né a quello dei figli, né a quello dello Stato attraverso le imposte. Ma significa anche che non possono godere di una malattia, né di una pensione, se un marito o un altro familiare che ne ha la possibilità non provvede con fondi pensione o pacchetti simili.
Non ci si pensa mai alle conseguenze possibili di queste scelte, finché le donne che le hanno vissute non le raccontano: se dipendi economicamente da qualcuno, ne dipendi completamente. Hai molte meno possibilità di fare delle scelte, anche quelle che magari non faresti ugualmente, perché nei casi di violenza non basta volerlo: serve sentirsi supportate da una rete. Forse non tutti sanno, ad esempio, che è possibile presenziare ai processi per violenza, stalking e via dicendo, dove la donna deve prendere coraggio e parlare di fronte a un avvocato che è lì appositamente per dimostrare che mente. Nella maggior parte dei casi le aule sono deserte.
Il secondo problema è che le donne, anche quando lavorano, specie nel privato, a parità di mansione guadagnano di meno dei colleghi maschi. È difficile quantificare quanto pesano le varie ragioni (salario orario più basso? Meno ore lavorate se libere professioniste?) ma sappiamo che la diffusione del part-time gioca un ruolo centrale. I dati Istat che abbiamo raccontato nel grafico in apertura lo evidenziano chiaramente. Con un part-time, a meno di non essere una dirigente, difficilmente ti mantieni e mantieni la tua famiglia. Oltre al fatto che la tua pensione sarà ben poco al di sopra della pensione minima.
Eurostat ha pubblicato i dati in questi giorni: in Europa lavora part-time il 28% delle occupate di età compresa tra 15 e 64 anni, contro l’8% degli uomini. Attenzione: sono le donne più povere a fare più part-time: il 48% delle donne con occupazioni assimilabili a quelle operaie erano lavoratrici part-time, contro il 19% degli uomini occupati nel medesimo ambito. Questa categoria che fa riferimento, tra gli altri, ad aiutanti, addetti alle pulizie o addetti alla preparazione del cibo, ha registrato la maggiore differenza tra le quote di lavoratori part-time donne e uomini (ben 29 punti percentuali). Questo gruppo principale di professioni è stato seguito da addetti ai servizi e alle vendite (35% donne vs 15% uomini) e tecnici e professionisti associati (26% vs 7%). La differenza più bassa tra le quote di lavoratori a tempo parziale fra uomini e donne si è registrata nelle categorie occupazioni manageriali (il 10% delle donne lavora part-time contro il 3% degli uomini). Le ragioni? Sicuramente il lavoro di cura. Se guadagni 1.200 euro al mese lavorando full time e devi pagare un asilo nido per tutta la giornata oppure un doposcuola, sembra più conveniente un part-time. Conveniente per chi? Dove solo un bambino su sei ha accesso al nido è inutile parlare di lavoro femminile. Se la donna è mamma infatti il divario si amplia incredibilmente: nel 2021 la metà delle neo-mamme italiane non lavora. E ancora: le giovani libere professioniste italiane guadagnano ancora molto meno dei colleghi uomini e comunque, anche con un dottorato se sei donna guadagni molto meno dei tuoi colleghi.
Eppure, non è solo un fatto di necessità. Lo riscriviamo: in Italia se un uomo non lavora, o lavora part time pur essendo abile a un lavoro a tempo pieno è uno scansafatiche; se lo fa una donna, anche senza figli ma sposata, rientra in ciò che ci si può aspettare.
È chiaro che qui il punto non è affermare che una persona si realizza solamente se si ammazza di lavoro fuori di casa. Troppo spesso le argomentazioni a sostegno del part-time ruotano intorno a questo nucleo. Al contrario: sempre di più si discute su lavorare tutti e tutte e lavorare di meno (uomini inclusi), a partire un salario minimo adeguato e da altre misure a sostegno del welfare. Eppure, nonostante la direttiva UE del settembre 2022 che obbliga gli stati membri ad adeguare i salari minimi entro due anni, nella seduta del 30 novembre 2022 è stata approvata dalla Camera una mozione che ha bloccato il salario minimo. In Italia nel gennaio 2015 il salario minimo è stato fissato a 8,5 euro l’ora (corrispondenti, per il tempo pieno, a 1.440 euro mensili), con l’obiettivo di rivederlo ogni due anni. Nel 2018 è stato portato a 8,84 euro l’ora (1.498 euro al mese), mentre nel 2019 a 9,19 euro l’ora. Nel 2020 si prevede di incrementarlo a 9,35 euro. Nel frattempo in Germania è stato approvato un aumento del salario minimo, dai 9,82 euro attuali ai 12 euro l’ora a partire dal 1° ottobre 2022. In Italia nel 2021 in Italia il salario lordo annuale medio di un dipendente a tempo pieno ammontava a 27.404 euro, contro i 37.382 euro dell’eurozona.
Il nocciolo della faccenda è che in Italia (ma non solo) i salari medi per il tempo pieno sono bassi rispetto al costo della vita. Nessuna persona la cui rendita viene dal proprio lavoro può mantenersi dignitosamente con uno stupendio part-time senza l’aiuto di genitori o nonni. Basta guardare i dati Istat che evidenziano che il reddito totale delle famiglie più abbienti nel 2020 era di 5,8 volte quello delle famiglie più povere (era il 5,7 nel 2019).