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cronaca

Ci sposiamo di meno. E quindi? Serve ancora contare i matrimoni?

In Italia ci teniamo sempre molto a contare i matrimoni “persi”, e nel post pandemia anche quelli “recuperati”, dando per scontato che il matrimonio sia sempre stato un indicatore di qualche cosa, che sia la fiducia nel futuro, negli altri, nella fedeltà, nel “per sempre”. La conclusione sottesa, spesso ancora prima di cominciare, è che oggi i giovani credono di meno in tutto questo. Semplicemente contando i matrimoni ci si aspetta di inquadrare i contorni di una presunta “instabilità” dell’interiorità dei giovani, come se si potessero desumere conclusioni su un tema antropologico così grande da qualche dato scarno. Al massimo, se si vuol parlare di instabilità, che sia instabilità delle tradizionali strutture sociali.

L’ultima nota Istat riporta che nel 2021 abbiamo avuto 180.416 matrimoni, il 2% in meno rispetto al 2019. Sottolineiamo sempre anche che i matrimoni religiosi sono in calo (-5,1%) rispetto al periodo pre-pandemico. Chissà che le ultime parole di Papa Francesco sulla non contraddizione per un sacerdote nel potersi sposare (“Il celibato nella Chiesa occidentale è una prescrizione temporanea. Non è eterna come l’ordinazione sacerdotale, che è per sempre, che piaccia o no. Il celibato, invece, è una disciplina.”) non contribuiscano a recuperare il “perduto”.
Un matrimonio su due è oggi infatti celebrato con rito civile e in 3 casi su 4, inclusi i matrimoni religiosi, si sceglie il regime patrimoniale di separazione dei beni (era il 40,9% nel 1995).
Poi ci sono le unioni civili fra persone dello stesso sesso, legali dal 2016, che vengono sempre conteggiate a parte rispetto ai matrimoni. Nel 2021 si sono costituite 2.148 famiglie da unioni civili tra coppie dello stesso sesso presso gli Uffici di Stato Civile dei Comuni italiani, in linea con il pre-pandemia.

Negli ultimi anni è stato progressivo il calo delle prime nozze, mentre parallelamente abbiamo registrato una crescita di seconde nozze e delle famiglie composte da almeno una persona che abbia vissuto una precedente esperienza matrimoniale. Si tratta di un fatto abbastanza ovvio, dal momento che è sempre meno un tabù separarsi e divorziare. Il gap nord-sud è sempre ben visibile: le percentuali più alte di matrimoni con almeno uno sposo alle seconde nozze sul totale delle celebrazioni si osservano in Liguria (36,1%) e Friuli-Venezia Giulia (32,5%). Le incidenze più basse si rilevano, invece, in Basilicata (8,0%) e Calabria (8,6%).

Vi è anche un altro aspetto importante da precisare quando si parla di “calo di nuzialità”: ci sono meno giovani rispetto a un tempo. La generazione dei Boomers era più copiosa di quella dei Millennials. Ne avevamo parlato ampiamente quando su Infodata abbiamo proposto un discorso diverso sulla denatalità. Negli ultimi due decenni il netto ridimensionamento numerico delle nuove generazioni, dovuto alla fecondità bassa e tardiva osservata a partire dalla metà degli anni Settanta, ha prodotto un effetto strutturale negativo sui matrimoni così come sulle nascite. Man mano che queste generazioni, molto meno numerose di quelle dei loro genitori, entrano nella fase della vita adulta si riduce infatti la numerosità della popolazione in età da matrimonio e, di conseguenza, a parità di propensione a sposarsi, cala il numero assoluto di nozze.

Elementare, Watson.

Si studia inoltre sempre di più, in media, posticipando l’età in cui ci si rende indipendenti. In meno di 20 anni la quota di giovani che resta nella famiglia di origine fino alla soglia dei 35 anni è cresciuta di quasi tre punti percentuali. Istat utilizza il tasso di primo-nuzialità totale, che permette di valutare quanti primi-matrimoni siano attesi da una ipotetica generazione di 1.000 individui. Tale indice segnala per il 2021 un’intensità di 412 primi matrimoni per 1.000 uomini e 458 per 1.000 donne. Come è possibile notare dalle curve di primo-nuzialità, la propensione a sposarsi diminuisce tra i più giovani mentre presenta un recupero a partire dai 30 anni in poi. A livello aggregato, la tendenza al rinvio delle prime nozze porta a un’età media di 34,3 e 32,1 anni rispettivamente per uomini e donne.

Tutto ciò premesso, cosa ci dice sull’andamento dello spirito dei tempi il fatto che ci si sposi un pochino di meno rispetto al passato? In realtà ben poco, ma non ci diceva granché nemmeno nei decenni scorsi, quando cioè sposarsi era pressoché l’unico modo per uscire di casa, specie per una ragazza, e ci si aspettava sempre di più che una coppia giovane convolasse a nozze il prima possibile. Siamo sicuri che queste persone credessero di più nell’amore, nella fedeltà, nell’unione sempiterna rispetto a oggi? Il bias, ossia la distorsione nel leggere questi dati, è piuttosto severa, anche rispetto alla possibilità di contare le unioni “registrate” fra persone dello stesso sesso.

Oggi sono molto diffuse le convivenze, anche se va detto che per le donne, l’uscita dalla famiglia di origine si contraddistingue ancora per la scelta preponderante del matrimonio (40% tra le nate negli anni Ottanta), seguita da quella della convivenza more uxorio, con percentuali via via crescenti di generazione in generazione. La diminuzione dei primi matrimoni è speculare alla progressiva diffusione delle libere unioni (convivenze more uxorio), che sono più che triplicate tra il biennio 2000-2001 e il biennio 2020-2021 (da circa 440 mila a 1 milione e 450 mila). L’incremento è da attribuire soprattutto alle libere unioni di celibi e nubili. Si va ancora poco a vivere da sole, e qui sarebbe forse tempo di raccogliere dei dati solidi sul perché, per esempio su quante giovani non facciano questo passo per ragioni economiche (le donne lavorano meno e guadagnano meno dei coetanei, ne abbiamo parlato spesso), e quante per lo stereotipo radicato ancora oggi secondo il quale una ragazza “non accompagnata” che va a vivere per conto proprio soprende quasi sempre.