I cittadini che vivono nei paesi Ocse non crede nella reale mobilità sociale del proprio paese. Neanche fra gli statunitensi, con buona pace del grande sogno americano. Di fatto che vivano in Francia, in Italia, in Canada, in Finlandia, poco cambia: i rispondenti a una survey di OCSE dipingono un contesto sociale dove quella che viene definita mobilità sociale, non è possibile per tutti. La domanda era la seguente: “Su 100 bambini provenienti dal 10% delle famiglie più povere in termini di reddito nel paese in cui vivi, quanti pensi vivranno ancora in una famiglia povera (appartenente al 10% più povero della popolazione) da adulti? I rispondenti italiani hanno risposto mediamente che il 55% di questi bambini nati poverissimi continuerà a essere poverissimo; gli spagnoli e i francesi che lo rimarrà il 60% di loro. E per gli americani la metà di questi bambini poverissimi non avrà chances.
La surey da cui è tratta questa domanda è del 2021, si intitola Does Inequality Matter? How People Perceive Economic Disparities and Social Mobility, ed è interessante perché restituisce uno spaccato – seppur tagliato con l’accetta, di quanto i servizi di supporto alla fragilità impattino sulla percezione delle persone che vivono in un certo paese.
Attenzione: mobilità sociale non significa che qualcuno sale e qualcuno scende rispetto alle condizioni della propria famiglia di origine, ma che chi è nato in condizioni meno fortunate dal punto di vista economico, abbia l’opportunità di vivere con maggiore benessere. Significa la possibilità per sé nella vita adulta oppure per i propri figli di cambiare la situazione socio-economica rispetto a un’infanzia vissuta in condizioni di svantaggio, fondamentalmente economico. Chiaramente quando la si misura, si tiene conto anche della mobilità verso il basso, cioè di quanti individui per varie ragioni vivono in età adulta in condizioni meno facili rispetto a quelle di partenza.
Il punto di partenza per chi fa ricerca sulla mobilità sociale è sempre il livello di istruzione della famiglia di origine, che impatta a tal punto la vita – chiaramente stiamo parlando di media, di statistica, poi ci sono le eccezioni – da riflettersi sullo stato di salute. Un esempio: lunghi periodi di disoccupazione possono avere effetti cicatrizzanti sulla salute dei lavoratori, riducendo così, a loro volta, le loro possibilità di assicurarsi un lavoro nuovo o ben retribuito. Un altro paper di OCSE ha stimato quanto il mancato lavoro e il basso reddito delle fasce più deboli impatti sulle finanze pubbliche. I governi starebbero perdendo fino al 7% delle proprie entrate fiscali per sostenere le persone che non ce la fanno ad arrivare a fine mese.
In tutta l’area OCSE – riporta un rapporto pubblicato a maggio 2023 – i bambini i cui genitori hanno una laurea hanno il 45% di probabilità in più di laurearsi all’università rispetto a quelli i cui genitori avevano meno di un diploma. Ma soprattutto, nonostante la massiccia espansione dell’istruzione sperimentata dalle coorti più giovani, questo divario è rimasto piuttosto persistente nel corso dei decenni. I 35-49enni i cui genitori in possesso di una laurea hanno 11 punti percentuali in più di probabilità di dichiarare di essere in buona salute e hanno un reddito disponibile superiore del 47% rispetto ai loro coetanei con genitori meno istruiti. Sono stati esaminati i dati più recenti provenienti da 38 paesi OCSE (36 per la salute e 32 per il reddito), dal 2019 al 2021 a seconda dei dati raccolti da ogni paese. Il 20% di chi non aveva genitori laureati si era laureato, contro il 70% di chi aveva genitori laureati.
Al di là del fatto di laurearsi, un altro indicatore interessante che mappa quanto aiuti nei primi anni di vita avere genitori più istruiti, è come sono seguiti i bambini in casa, oltre alla scuola. OCSE ha chiesto ai genitori di bambini di quarta elementare provenienti da status socio economici diversi di valutare quanto tempo avevano dedicato a insegnare ai propri figli a leggere o a scrivere o a contare prima dell’inizio della prima elementare. I bambini di famiglie dove il livello medio di istruzione è più basso arrivano più svantaggiati già alle scuole elementari. In Italia intorno al 35% di chi proviene da famiglie a basso reddito riceve questi stimoli prima della prima elementare, contro il 60% di chi proviene da famiglie ad alto reddito. In altri paesi come Francia, Germania e Canada, il gap è molto maggiore. In Irlanda addiritura il divario è dal 40% all’80% dei bambini.
Eppure fra i paesi OCSE lo scenario sembra cristallizzato da ben prima della pandemia. Se consideriamo la percentuale di popolazione in età lavorativa rimasta con un reddito bassissimo (quintile inferiore) o altissimo (quintile superiore) nell’arco di quattro anni, dal 2016 al 2019, vediamo che non solo le percentuali fra paesi OCSE, seppur con variazioni da stato a stato, sono elevate in entrambi i casi, ma anche che in Italia la polarizzazione è forte: intorno al 65% di chi era poverissimo nel 2016 lo era anche nel 2019, e nel mentre il 70% che apparteneva al 10% più ricco lo è rimasto. Nel complesso, nel periodo precedente alla pandemia, evidenzia OCSE, le persone nel quintile più basso del reddito familiare disponibile avevano una probabilità del 55% di rimanere nella stessa fascia di reddito dopo 4 anni. All’estremo opposto, quelli nel quintile più alto (i più ricchi) avevano una possibilità ancora maggiore (67%) di continuare ad appartenere alla classe dirigente. Inoltre, negli ultimi decenni si è assistito a un aumento del rischio di mobilità verso il basso per segmenti più ampi della popolazione, compresa la classe medio-bassa.