Indica un intervallo di date:
  • Dal Al
economia

Nessuno dovrebbe sentirsi costretto a licenziarsi dal lavoro perché altrimenti non riesce a gestire la famiglia

Questo slideshow richiede JavaScript.

Nessuno dovrebbe sentirsi costretto a licenziarsi dal lavoro perché altrimenti non riesce a gestire la famiglia, che sia uomo o donna. Ma certamente oggi questo è ancora un problema essenzialmente delle donne. Ogni anno Save the Children pubblica il rapporto “Le (mamme) equilibriste” che racconta le differenze ancora oggi in termini di cura fra uomini e donne che diventano genitori. Anche quest’ anno uno scoramento. Chi si occupa di parità di genere ha la percezione che negli ultimi anni stiamo facendo dei passi in avanti sull’importanza di passare dall’uomo “che aiuta a casa” a un bilanciamento della gestione domestica. Evidentemente è l’illusione della bolla.

Nel 2023, 7 convalide di licenziamento su 10 nel 2023 hanno riguardato donne ma a contare è il perché. A dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Per le donne, infatti, quella principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del figlio: il 41,7% ha attribuito questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% ha indicato problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Per gli uomini, invece, la motivazione predominante è di natura professionale: il 78,9% ha dichiarato che la fine del rapporto di lavoro è stata dovuta a un cambio di azienda e solo il 7,1% ha riportato esigenze di cura dei figli.
Quanto sia un’abitudine familiare condivisa dalla coppia – quindi assimilata dalla donna come proprio dovere – o quanto sia dovuta a un rifiuto da parte dell’uomo non è riportato solitamente dai dati, e questo rende difficile fare delle serie considerazioni.

Ma quale carriera!

Le donne lavorano di meno in generale, anche quando non sono madri, segno che il tema dell’indipendenza femminile prescinde la maternità. Nel complesso solo il 57% delle donne con due o più figli minori tra i 25 e i 54 anni lavora (il 68,7% di quelle senza figli). Per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione totale è dell’83,7%, con una variazione che va dal 77,3% per chi è senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più.

Il tema trito e ritrito della maternità si compone dei due adagi: le donne fanno meno figli e li fanno in media sempre più tardi. Istat ci dice che nel 2023 abbiamo registrato un calo delle nascite del 3,6% rispetto all’anno precedente. Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno di quanti ne vorrebbero: nella popolazione femminile in età fertile, convenzionalmente definita tra i 15 ei 49 anni, il numero medio di figli per donna, infatti, è di 1,20, mostrando una flessione rispetto al 2022.

Questi dati vengono il più delle volte connotati da un’aura di accusa, quasi volgare perché non degna di uno sguardo di considerazione tutto ciò che è stato pensato e scritto rispetto all’autodeterminazione della donna a essere madre.
Confrontare il nostro contesto con quello di 40 o 50 anni fa dove le persone si sposavano giovani e facevano figli altrettanto da giovani non significava necessariamente scelta meditata e responsabile, o di aver “messo su famiglia” davvero con una persona scelta con attenzione: questa correlazione è ben più luogo comune che fenomeno supportato da evidenze raccolte. Ma soprattutto significava molto spesso che la neomamma non avrebbe più lavorato. In secondo luogo, il discorso è appiattito intorno alla “colpa” della carriera, come se tutte le donne fossero “in carriera”. Qui non parliamo di carriera ma semplicemente di lavoro e autodeterminazione finanziaria.

È davvero un male che facciamo i figli più tardi?

Viviamo in un contesto in cui i figli devono essere gestiti dalla famiglia nucleare, che può essere composta anche da una persona sola. In cui mancano gli asili nido, e un figlio può limitare moltissimo – come mostrano i dati del rapporto di Save The Children – alcune scelte.
Considerando per un momento solo il mondo delle relazioni eterosessuali, non è detto che una giovane ragazza fidanzata sia davvero sicura della sua scelta rispetto al suo giovane compagno (vale anche il viceversa chiaramente) tanto da legarsi a tal punto da fare un figlio insieme. Allora ci si pensa – in alcuni casi si aspetta forse troppo cercando una perfezione di coppia che non esiste, ma quello è un aspetto psicologico individuale personale, difficilmente imbrigliabile dalle statistiche nazionali. Oltre al fatto che dopo i 35 anni la fertilità della donna inizia a calare e non è detto che poi un figlio arrivi davvero. L’infertilità è in aumento in tutto il mondo, anche in Italia. L’ultimo rapporto dell’OMS (2023) stima che nei paesi ad alto reddito una persona su sei abbia problemi di fertilità (in alcuni casi risolvibili).

La provocazione è se sia davvero un male che facciamo i figli dopo i 30 anni. Forse è vero che in un mondo ideale dove la presa in carico di un figlio non grava solo sulle spalle del genitori, in assenza di nidi, di dopo scuola, di un lavoro stabile, aspettative professionali come quelle di un uomo, reale flessibilità di entrambi i genitori sul lavoro per gestire i figli, allora forse una parte delle donne compierebbe questa scelta a cuor più leggero anche prima dei trent’anni. Ma non è così, e allora forse vale la pena chiederci di più che cosa ci auguriamo per una giovane donna.

Come fanno in Francia e in Germania?

Dal 2000 ad oggi, la Francia è l’unico Paese europeo rimasto stabilmente vicino alla soglia di due figli per donna, benché dal 2015 il Paese abbia visto gradualmente scendere il suo tasso di fecondità, con un’eccezione tra il 2020 e il 2021 quando il numero medio di figli per donna è tornato a crescere, e nel 2022 si attesta su 1,79 figli per donna. Il suo approccio è incentrato su un articolato sistema di sostegno finanziario alle famiglie e sulla garanzia di accesso a servizi per l’infanzia di qualità e tarati su diverse esigenze familiari.

In Germania il tasso di fecondità è aumentato tra il 2020 e il 2021, ma ha avuto un drastico calo di nuovo nel 2022, passando da 1,58 a 1,46 figli per donna. Qui, oltre al supporto economico per i figli e la possibilità di usufruire di un congedo parentale part-time mentre si lavora per il resto del tempo compensando così la perdita di reddito al 67%, i bambini a partire dal primo anno di età hanno diritto a un posto in un asilo nido o in un servizio simile.

La Finlandia ha adottato nel 2022 una delle riforme sul congedo più innovative d’Europa, che prevede l’allocazione simmetrica delle quote di congedo per ciascun genitore, con la possibilità di trasferire parte della quota all’altro genitore, un congedo parentale complessivamente più lungo e una maggiore flessibilità nell’utilizzo. L’accesso ai servizi per la prima infanzia è inoltre garantito ad una percentuale di bambini molto elevata, soprattutto nella fascia tra i 2 e i 3 anni.

Per approfondire.

Mamme d’Italia: chi ve lo fa fare?

Asili nido, in Italia li frequenta solo un bimbo su otto

Essere mamma oggi: come cambia il lavoro prima e dopo la nascita di un figlio