La risposta che proviene dalla più ampia analisi della letteratura scientifica è ambigua. Una revisione pubblicata nientemeno che su The Lancet Planetary Health, ci dice che se prolungate, le riduzioni dei prezzi mirate a frutta e verdura (e potenzialmente ad altri alimenti più sani) potrebbero portare a cambiamenti significativi negli acquisti e nei consumi di questi prodotti, sufficientemente sostanziali da produrre benefici per la salute. Ma al tempo stesso non è chiaro se comprando più frutta e verdura smetteremmo sul serio di mangiare cibo meno sano. Al momento infatti non vi sono prove convincenti di eventuali effetti negativi su altri acquisti o consumi derivanti dalla riduzione dei prezzi di frutta e verdura o di altri alimenti considerati “sani”. In ogni caso la domanda che resta aperta è su chi deve ricadere il costo dell’abbassamento del prezzo di frutta e verdura: non certo sui produttori, molti dei quali specie chi lavora nel biologico, faticano a stare a galla.
Nel corso dei decenni gli esperti di salute pubblica e le agenzie internazionali hanno studiato l’efficacia di strategie di salute pubblica per ridurre il consumo di zucchero, di alcol, di sale o di tabacco, puntando sui costi, ossia tassando questi prodotti per sfavorirne l’uso.
Cosa dice la ricerca
È emerso che una riduzione dei prezzi del 20% comportava un aumento degli acquisti di frutta e verdura del 16,6%. Pochi studi purtroppo avevano mantenuto la riduzione del prezzo per oltre 6 mesi, permettendo una valutazione a lungo termine. In ogni modo il dato è interessante anche perché è la più completa revisione in materia, che comprende 9 studi non considerati in un’ampia revisione precedente.
La ricerca ha considerato 34 studi condotti negli ultimi 10 anni, dal 1 gennaio 2013 al 20 dicembre 2021 (nel senso che dopo averne esaminati 7511 ne ha tenuti solo 34 in seria considerazione), stratificando i risultati in base allo status socioeconomico del campione.
Al tempo stesso non sono emerse prove convincenti di eventuali effetti negativi su altri acquisti o consumi derivanti dalla riduzione dei prezzi di frutta e verdura o di altri alimenti sani. In realtà solo cinque studi hanno esaminato l’effetto della riduzione dei prezzi degli alimenti sani (o della creazione di una differenza di prezzo tra alimenti sani e non salutari) sul successivo acquisto o consumo di alimenti non salutari (tre hanno riportato cambiamenti negli acquisti, due nel consumo. Inoltre c’è il problema di mettersi d’accorso sulle parole: a seconda dello studio si definiva il cibo “ malsano” in modi diversi, principalmente come cibo ad alto contenuto di zuccheri, grassi e sale. I risultati aggregati hanno mostrato che per ogni riduzione del prezzo del 20% non si è verificato alcun cambiamento statisticamente significativo negli acquisti o nel consumo di alimenti non salutari: l’acquisto o il consumo di alimenti non salutari è diminuito solo del 2,40%.
Ancora scarsi i dati sui consumi
Un limite è che la maggior parte degli studi si è concentrata principalmente sugli acquisti piuttosto che sui consumi come misura di risultato chiave influenzata dalla riduzione dei prezzi. Tuttavia, sebbene il consumo sia un risultato più immediato, gli acquisti possono essere misurati in modo molto accurato (sulla base delle vendite elettroniche o dei dati di acquisto raccolti a fini di fatturazione da mense e supermercati), mentre il consumo di nutrienti è notoriamente difficile da misurare.
In Italia
In Italia, così come nel resto del mondo, i più poveri hanno un’alimentazione meno sana e fanno meno attività fisica, rispetto a chi sta economicamente meglio e soprattutto a chi ha un titolo di studio più elevato. La sorveglianza PASSI di ISS relativa al biennio 2021-2022 evidenzia che è in sovrappeso il 35,6 per cento di chi ha molte difficoltà economiche contro il 31 per cento di chi non ne ha, e il 42 per cento di chi non ha neanche la licenza media, il 31,5 per cento dei diplomati e il 26,9 per cento dei laureati. Oltre a questi, è obeso il 17 per cento di chi ha difficoltà economiche contro l’8,7 per cento di chi non ne dichiara. Il 22 per cento di chi non ha la terza media contro il 9 per cento dei diplomati e il 6 per cento dei laureati. Il campione riguarda gli adulti con meno di 69 anni.
Più frutta e verdura basta per stare meglio?
Anche qui la letteratura è cristallina sul fatto che il maggiore consumo di frutta e verdura è associato a un rischio ridotto sia di malattie non trasmissibili che di mortalità prematura (ne stiamo parlando nell’inchiesta sull’alimentazione vegetale che sta uscendo in queste settimane su Infodata). L’elevata glicemia a digiuno e l’elevato indice di massa corporea sono stati due dei tre principali fattori di rischio che hanno avuto un impatto significativo sugli anni di vita persi aggiustati per disabilità ed erano prevalentemente associati a fattori legati allo stile di vita come la dieta.
Va anche precisato però che un’alimentazione più ricca di frutta e verdura non significa necessariamente un’alimentazione sanissima, ossia povera di prodotti lavorati, come prodotti lattiero caseari, salumi, bevande zuccherate e dolci.
Ciò che emerge dalla letteratura è che seguire una dieta equilibrata senza prodotti animali o con bassissimo apporto di prodotti animali porta benefici maggiori all’organismo di una dieta onnivora. In sostanza è ormai scientificamente consolidato che “più vegetale è meglio”, ma i dettagli di questo vantaggio vanno spiegati bene. A inizio gennaio 2024 Netflix ha pubblicato un documentario in 4 puntate dal titolo Sei ciò che mangi, che racconta uno studio pubblicato sulla nota rivista scientifica JAMA, che esaminava 22 coppie di gemelli omozigoti. A uno dei gemelli scelto casualmente è stata fornita per 8 settimane una dieta esclusivamente vegana mentre all’altro una dieta onnivora ma ben bilanciata e sana. In tutte le coppie, chi aveva mangiato vegano mostrava dopo soli due mesi un miglior stato di salute.
Nel complesso però la letteratura è chiara sul fatto che non è necessario diventare completamente vegani per veder migliorare i propri livelli di colesterolo cattivo, di infiammazione, di insulina, fattori noti di rischio per varie patologie, o per veder ridurre i livelli di grasso corporeo e viscerale.
Per approfondire:
Che cosa rende gli alimenti di origine vegetale più “sani”?
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