Le donne e l’impresa: un terzo degli imprenditori è donna. Sono titoli che fanno sempre il botto come se essere imprenditrici significasse necessariamente uno stipendio adeguato, o anche solo pari a quello dei colleghi uomini. Il problema di fondo è che quasi la metà delle donne italiane con figli piccoli con meno di 49 anni non lavora.
La nota Istat pubblicata in occasione dell’8 marzo rileva che alla fine del 2021 si contava che il 30% degli imprenditori italiani è donna, sostanzialmente la stessa percentuale del 2015, e il 90% delle imprenditrici lavora nei servizi, a fronte del 74,9% degli uomini). Molto contenuta la quota di imprenditrici del comparto industriale (6,4%) e marginale in quello delle Costruzioni (2,9%), che si conferma dunque a forte caratterizzazione maschile. Entrando più nel dettaglio, le imprenditrici più frequentemente dei loro colleghi guidano imprese delle Attività professionali, scientifiche e tecniche (20,0% contro il 17,2%), Sanità e assistenza sociale (12,5% contro il 5,5%), Servizi di alloggio e ristorazione (9,3% contro il 6,8%) e altri servizi alla persona (9,0% a fronte del 2,8% degli imprenditori).
Attenzione: sotto il termine ombrello degli “imprenditori” si trovano anche i liberi professionisti. Anzi c’è di più: nel novero delle “imprenditrici” due terzi sono libere professioniste, ossia non fanno “impresa” il 2% in più degli uomini. L ’assenza di dipendenti caratterizza soprattutto l’attività imprenditoriale delle under35 (72,8%) e delle imprenditrici del Nord-Ovest (68,9%).
Se si analizza specificatamente l’incidenza della presenza femminile per classi di dipendenti, lo squilibrio di genere appare particolarmente evidente nelle imprese con più dipendenti, mentre fra le imprese senza dipendente la composizione per genere degli imprenditori è più bilanciata. tra 10 e 49 dipendenti, dove le donne rappresentano il 25% del totale degli imprenditori con 10-50 dipendenti e il 39% di chi non ha dipendenti.
Le donne però arrivano a rappresentare più di un terzo solo tra i liberi professionisti (37,4%) e gli imprenditori di cooperativa (34%). Ancora più contenuta la presenza di donne nelle altre forme societarie fino a raggiungere il valore più basso nelle società di capitale (26%).
Le libere professioniste guadagnano molto meno dei colleghi uomini, lo abbiamo raccontato in varie occasioni. I dati ADEPP relativi al 2022 che comprendono gli iscritti a una cassa di previdenza privata legata a un ordine professionale, mostrano che negli ultimi 17 anni la percentuale di iscritte donne è cresciuta notevolmente. Le iscritte donne rappresentano, al 2022, quasi il 41% del totale. Inoltre, nonostante il reddito medio delle libere professioniste sia di circa 27.848 euro, il 50% di queste ha un reddito inferiore ai 17.000 euro.
Un altro dato da tenere a mente è che le donne imprenditrici sono mediamente più giovani e più titolate dei colleghi uomini. Ha conseguito un titolo di studio terziario il 34,5% delle imprenditrici a fronte del 23,4% degli uomini. In presenza di un titolo di studio elevato si riduce il gap di genere. Si sa d’altro canto che si laureano più donne che uomini e – ma questo qui poco conta – con voti più alti e in meno tempo.
Studiare “protegge” dalla disoccupazione, dove con la parola “protegge” significa che si osserva che per esempio la differenza occupazionale tra lo status di madre e non madre è molto bassa in presenza di un livello di istruzione più elevato. Poco meno della metà (precisamente il 45%) delle donne fra i 25 e i 49 anni con figli di meno di 6 anni non risulta occupata: nel 2022, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra 25 e 49 anni con figli di età inferiore ai 6 anni è pari a 55,5%, mentre quello delle donne della stessa età senza figli è del 76,6%. Questi dati sono tratti da un utile documento di sintesi redatto dalla Camera dei Deputati.
Se consideriamo le donne fra i 20 e i 64 anni, il tasso di occupazione è fra i più bassi d’europa: 55 donne italiane lavorano contro una media europea di 70 su 100. Le donne occupate – che siano imprenditrici o dipendenti o “non standard” sono circa 9,5 milioni, laddove i maschi occupati sono circa 13 milioni. E come non parlare anche dell’immigrazione: solo il 55,3% delle donne nate fuori dall’UE ha un lavoro, contro il 69,7% delle donne nate nell’UE.
Con l’espressione lavoro “non-standard” ci si riferisce a rapporti caratterizzati da una ridotta continuità nel tempo e/o da una bassa intensità lavorativa. In altre parole, contratti a termine e part time involontario. E ad essere coinvolte in queste modalità lavorative – questo ci dicono i dati del 2022 – sono soprattutto le donne: il 27,7% delle occupate sono lavoratrici non-standard contro il 16,2% degli uomini.
La quota di lavoratori non-standard raggiunge il 45,7% tra le donne giovani (a fronte del 33,9% dei coetanei), il 36,1% tra le residenti nel Mezzogiorno (22,1% gli uomini della stessa ripartizione), il 36,4% tra le donne che hanno al massimo la licenza media (18,6% gli uomini con lo stesso livello di istruzione) e arriva al 40,7% tra le straniere (28,3% tra gli stranieri maschi).
Lo svantaggio femminile si evince anche dalle retribuzioni: i dati del 2019 mostrano che in media le donne percepiscono una retribuzione oraria dell’ 11% inferiore a quella degli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-ovest e il -8,1% nel Sud.
La scadenza per cambiare le cose è fissata al 7 giugno 2026. Entro quella data dovrà essere recepita la direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 maggio 2023, che stabilisce prescrizioni minime per rafforzare l’applicazione del principio della parità retributiva per uno stesso lavoro tra uomini e donne e il divieto di discriminazione in materia di occupazione e impiego per motivi di genere. L’Italia ha elaborato una Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che mira a ridurre la differenza tra il tasso di occupazione femminile e maschile a meno di 24 punti percentuali, ridurre la differenza tra il tasso di occupazione femminile per le donne con figli e senza figli a meno di 10 punti percentuali (rispetto agli attuali 12), incrementare la percentuale di imprese “femminili” (che sono altra cosa rispetto al dato riportato da Istat che include anche la libera professione) rispetto al totale delle imprese attive dall’attuale 22% al 30%. Per quanto riguarda la parità salariale, l’obiettivo è quello di ridurre il gender pay gap nel settore privato dal 17 al 10%.
Per approfondire.
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