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economia

Un buon work-life balance è possibile

Viene chiamata the magic roundabout e consiste nel farsi accompagnare a casa in taxi, dopo una lunga ed estenuante giornata in ufficio, con le prime luci dell’alba. Una volta raggiunta la meta, si chiede all’autista di attendere il tempo necessario per una rapida doccia e un cambio d’abito. Dopodiché si ritorna in macchina, diretti nuovamente a lavoro, pronti per una nuova giornata in ufficio, oberati di scadenze, immersi nelle scartoffie e a stretto contatto con i propri colleghi. Magari non freschissimi, ma con una camicia pulita. Di questa pratica – e di molte altre curiosità simili – se ne parla nel libro di Marcello Russo, edito da Il Mulino e dal nome emblematico: “In Equilibrio”.

Il testo, che cerca di descrivere le diverse sfaccettature di un vastissimo argomento, quale il work-life balance, è suddiviso in cinque parti e si compone di diciannove capitoli. Nella prima parte si cerca di decifrare la tematica del bilanciamento vita-lavoro per come viene intesa sia nella società, sia nella gestione degli enti pubblici e privati. Nella seconda parte si entra nel vivo degli approcci di studio a questa tematica, posti in atto in due differenti modalità: il primo approccio tende a considerare l’individuo come principale artefice del proprio work-life balance, il secondo sottolinea quanto siamo influenzati dalla nostra rete di relazioni e dal contesto socio-organizzativo in cui operiamo nel quotidiano. Nella terza parte, poi, si entra nel vivo della materia attraverso un’analisi dei differenti tipi di leadership aziendale (e di come le figure apicali a lavoro incidano molto sulla nostra psicologia, scivolando spesso in altri ambiti del nostro quotidiano). Quarta parte: qui si esaminano le modalità con cui le politiche di welfare e la cultura aziendale (nazionale e non) facciano da giudice-giuria-e-boia per la nostra capacità di conseguire un buon equilibrio lavorativo e familiare. Infine, nella quinta parte, l’autore elenca una serie di azioni che potrebbero, a suo parere, aiutare la società, le aziende e i loro responsabili a sperimentare condizioni di miglioria della qualità della vita, con spunti e riflessioni connaturati ad una ricerca davvero enciclopedica sull’argomento (e, perché no, anche accattivante).

Ma perché potrebbe essere un buon libro per l’estate? È presto detto, guardando ad alcuni dati esposti nel libro, estrapolati dall’ultimo rapporto di Expedia e relativi alla Vacation Deprivation.

 


Secondo tale studio, popolazioni come quella giapponese, sono spesso inconsapevoli del numero di ferie annuali a loro disposizione contrattualmente. Anche per questo motivo, si utilizzano in media solo dodici dei venti giorni di ferie disponibili ogni anno. Senza poi contare che, il 18% dei giapponesi che ha preso parte alla survey di Expedia, ha affermato di sentirsi in colpa mentre è in vacanza, mentre il 13% ha dichiarato che, durante le ferie, non riesce a smettere di pensare al lavoro. L’analisi la troviamo nel libro proprio per esprime questo senso di deprivazione, utile a rendere chiare le differenze tra i Paesi più collettivisti (dove è maggiore questo sentimento, perché ci si sente in colpa nei confronti della collettività), e quelli individualistici (che percepiscono meno la deprivazione, perché considerano centrale la propria vita, dando precedenza ai propri bisogni rispetto a quelli della comunità). Noi italiani, insieme a gran parte dei cittadini europei, percepiamo poca deprivazione dalle vacanze, e questo è dovuto, appunto, al nostro individualismo. Ma, in generale, la percentuale di persone che a livello globale soffre di questa condizione è in aumento rispetto agli anni precedenti (il 62% degli intervistati, l’anno prima era al 58%) e ne sono vittime, in maggior misura, le nuove generazioni.

 

Nello stesso studio troviamo anche in quali Paesi i lavoratori godono del minor numero di giorni di vacanza. Tra questi si menzionano il Messico, gli Stati Uniti e Singapore.

 

All’interno del libro troviamo numerosi richiami alla cultura Usa. . Molto interessante, ad esempio, l’argomento della “moralizzazione dello sforzo”, che enfatizza la profonda ammirazione per chi non si concede un attimo di riposo (distruggendo, di conseguenza, la propria work-life balance). Un fenomeno, questo, che è stato oggetto di diversi studi. Abbastanza per veder coniare il termine busyness, che descrive la società moderna nei suoi ritmi frenetici e stressanti. L’autore cerca di fare una disamina esaustiva, analizzando tra le altre cose il sistema di Palo Alto, città californiana caratterizzata dalla più alta concentrazione di capitali finanziari al mondo e l’impressionante numero di miliardari iscritti nelle sue liste elettorali. Un sistema capitalistico che deve molto all’estenuante ricerca di ottimizzazione del tempo, ma che definisce anche un modello sociale, culturale e lavorativo nocivo per i suoi abitanti, specie per gli adolescenti (la città è anche tristemente conosciuta per il numero di suicidi tra i più giovani).

Ma quindi, come si può trovare un equilibrio? Nel testo si parla di come un leader equilibrista sia anche (soprattutto?) un family-supportive, tenendo sempre in mente che attuare atteggiamenti consapevoli, altruistici e capaci di generare un buon work-life balance dei collaboratori, è un fattore critico di successo. Questo, per concludere, va a conciliarsi con ciò che davvero arricchisce questo libro: la spontaneità con cui si fa spesso menzione degli stakeholders più importanti (alle volte, purtroppo, dimenticati): la famiglia, i propri affetti. Anche perché, le nostre capacità da “equilibristi” vanno a correlarsi (direttamente o indirettamente) con il benessere dei nostri cari. E questo bisogna sempre ricordarlo

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