Nel 2014 viene pubblicato il libro dell’economista francese Thomas Piketty dal titolo “Il Capitale nel ventunesimo secolo”.
Il saggio si pone come obiettivo quello di mostrare come la disuguaglianza economica, a livello di ricchezza posseduta, sia peggiorata nel corso degli ultimi cento anni, affermando che l’attuale livello di disparità sia tornato ai livelli precedenti alla Prima guerra mondiale.
L’opera di Piketty ha ricevuto un grande plauso dalla critica e da premi Nobel per l’Economia del calibro di Krugman e Stiglitz, ma non sono mancate le critiche.
Il lavoro realizzato dall’economista francese è stato sin da subito elogiato dalle forze politiche più a sinistra, facendo immediatamente loro lo sforzo intellettuale di Piketty e portandolo come prova delle gravi insidie che il capitalismo porta con sé.
I risultati evidenziati dal professore sembravano dover rivoluzionare la letteratura sul tema e spingere la politica ad aprire gli occhi sul tema della disuguaglianza economica, fino a che le evidenze e i dati presenti nel libro non sono stati messi alla prova.
In questo articolo della BBC si racconta tutta la storia – compresi i vari botta e risposta dei protagonisti e dei commentatori – delle critiche mosse nei confronti dell’analisi di Piketty. Nate Silver, fondatore del blog FiveThirtyEight e della newsletter Silver Bulletin, ricorda come dietro qualsiasi analisi ci sia l’uomo e che commettere errori in fase di raccolte e studio dei dati sia parte del gioco, aggiungendo che “se gli analisti continuassero a lavorare sui dati fino a che questi non sono perfetti, non avrebbero tempo per analizzarli.”
Misurare le disuguaglianza e la povertà è quindi un tema complesso.
Uno degli strumenti utilizzati più spesso per quantificare la disuguaglianza all’interno di un paese è l’indice di Gini, un coefficiente che cerca di misurare quanto la distribuzione di una determinata quantità si discosti dalla perfetta uguaglianza. L’indice va da 0 a 100: più è basso più si è vicini alla perfetta uguaglianza, più è alto e più ci si allontana da essa, evidenziando gravi disparità.
Tale indice viene solitamente usato per misurare il divario reddituale all’interno di diversi paesi e delle rispettive economie, quindi quanto il reddito sia distribuito in maniera disuguale tra gli individui di una popolazione.
Il coefficiente non deve essere però frainteso. Se è vero che può essere utilizzarlo per avere una stima di come la distribuzione del reddito sia sbilanciata verso la disuguaglianza, è altrettanto vero che da solo può fornire nessuna informazione o, peggio, informazioni fuorvianti.
Pensare che l’obiettivo sia raggiungere un coefficiente di Gini quanto più vicino allo zero è sbagliato. Infatti, immaginando un’economia in cui il numero di poveri assoluti sia diminuito, ma dove venga registrato anche un aumento della ricchezza generale, il Gini aumenterebbe segnalando una maggiore disparità, non considerando che il benessere generale potrebbe, però, essere migliorato.
Oltre a questo indice è quindi sempre doveroso accompagnare l’analisi da ulteriori misurazioni, che possono essere di carattere puramente economico o sociale oppure più statistici, come l’indice di Bonferroni.
Paradossalmente, immaginando una società dove tutti gli individui hanno un reddito pari a zero, l’indice di Gini decreterebbe perfetta uguaglianza reddituale. Il che è vero, ma non è sicuramente quello lo scopo da perseguire, perché si sarebbe in presenza di una società dove nessuno ha nulla.
Per quanto visto sopra e per altri motivi legati alla costruzione stessa dell’indice di Gini, non ci si deve mai fermare solamente al suo valore, ma usarlo insieme a una comprensione dell’intero quadro economico e sociale di un paese.
Per quanto riguarda la povertà?
La povertà in Italia viene calcolata dall’ISTAT e distinta in povertà assoluta e povertà relativa. Ad aprile 2024 è stato pubblicato un nuovo calcolatore per la soglia di povertà assoluta che permette di tenere conto, con attenzione maggiore, della variabile geografica. Infatti, oltre a distinguere l’area geografica, attraverso il nuovo approccio sarà possibile entrare nei dettagli della dimensione del comune in cui gli individui vivono, differenziando per “Area metropolitana”, “Grande comune” – più di 50.000 abitanti – e “Piccolo comune” – fino a 50.000 abitanti.
Ma cos’è la povertà assoluta e come si distingue da quella relativa?
Per povertà assoluta si intende l’incapacità economica di accedere ai beni e servizi considerati essenziali.
L’Istat “definisce povera una famiglia con una spesa per consumi inferiore o uguale al valore monetario di un paniere di beni e servizi considerati essenziali per evitare gravi forme di esclusione sociale.” L’esatto valore monetario viene aggiornato annualmente secondo l’inflazione e i consumi medi delle famiglie.
Riguardo la povertà relativa, l’Istat si appoggia all’”International Standard of Poverty Line (ISPL)” che considera in povertà relativa una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o uguale alla spesa media per consumi pro-capite.
In pratica, se una coppia – o qualsiasi nucleo familiare composto da due persone – spende meno della spesa media di un singolo individuo, allora la sua condizione è di povertà relativa.
I dati relativi alla povertà vengono rilevati attraverso l’autocompilazione di un diario cartaceo che raccoglie le spese effettuate nei 14 giorni precedenti. È necessario anche tenere a mente possibili bias, errori o simili durante la compilazione del questionario.
In Italia, nel 2023, il 9.8% della popolazione italiana, cioè 5.7 milioni di individui, ha vissuto sotto la soglia di povertà assoluta. In termini di nuclei familiari, la povertà assoluta influenza 2.2 milioni di famiglie. Anche qui, circa una famiglia su dieci.
La povertà relativa, invece, intacca circa il 15% dei residenti, ma la media può essere fuorviante: il Mezzogiorno presenta un tasso di povertà relativa tre volte più grande rispetto a quello del Nord. Nel primo caso si è circa al 25%, mentre nel secondo ci si attesta sull’8%.
La situazione è ferma così da più di 10 anni.
Si può scendere nel dettaglio di ogni singola regione e comunque notare come il pattern sia lo stesso: tutte le regioni del Sud presentano un tasso di povertà relativa più elevato rispetto a quelle del Nord.
Com’era possibile apprezzare già dal grafico precedente si nota come il Nord stia andando incontro a un aumento del proprio tasso di povertà relativa: dalle mappe si vede come, mano a mano che gli anni avanzano, alcune sue regioni si sono fatte sempre più chiare, indicando un aumento del relativo tasso.
La situazione è destinata a cambiare? Se si pensa all’istruzione come a un possibile modo per riuscire a far uscire quanti più individui dalla trappola della povertà, allora purtroppo il futuro non sembra affatto roseo.
In alcune regioni del Sud e nelle Isole, circa il 20% degli individui con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni ha ottenuto solamente la licenza media. E se è vero che nel Nord la situazione migliora, ci sono comunque regioni dove il sopracitato tasso è di circa il 15%.
Inoltre, spesso non basta avere un lavoro per riuscire ad uscire dallo stato di povertà: nel 2023, quasi l’8% dei lavoratori si trovava in condizioni di povertà relativa.
La situazione delineata precedentemente è quella rappresentata dai dati che l’Istat riporta, ma è necessario evidenziare che il campione di famiglie tenuto a compilare un diario sui consumi è costituito da circa 30000 unità su un totale di circa 25 milioni di famiglie, cioè lo 0.12% circa di tutte le famiglie in Italia. Inoltre, la modalità di auto-compilazione potrebbe spingere a omettere determinate spese e a ingrandire gli aspetti più negativi, facendo risultare la famiglia più povera e gonfiando i numeri relativi all’indigenza.
La povertà assoluta in Italia è sicuramente in aumento e l’attuale livello d’istruzione non sembra poter migliorare la situazione, ma se lo Stato vuole aiutare la popolazione veramente in difficoltà potrebbe valutare l’adozione di una serie di controlli più precisi, evitando l’autocompilazione di diari e istituendo una piattaforma per la gestione dei dati che possa tenere conto dei consumi familiari in maniera diretta, in modo da intervenire e sostenere chi davvero ne ha bisogno.
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