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economia

“It is still 90 seconds to midnight”: i rischi dell’uomo, tra clima e conflitti

It is still 90 seconds to midnight”.
“Ci sono ancora 90 secondi per la mezzanotte” recita la pagina, nel sito Bulletin of Atomic Scientist, del Doomsday Clock, nato nel 1947, per misurare metaforicamente quanto l’umanità sia vicina alla sua fine.
L’Orologio dell’apocalisse deve le sue origini ai rischi di un’ipotetica guerra atomica; infatti, inizialmente la mezzanotte era rappresentata esclusivamente da un conflitto nucleare, ma negli anni a seguire si sono aggiunte altre possibilità che avrebbero portato l’uomo alla sua dipartita, come il cambiamento climatico e l’intelligenza artificiale.

La decisione di spostare o meno le lancette del nefasto orologio spetta al Science and Security Board, che si riunisce una volta l’anno e valuta i fenomeni, le azioni e gli eventi accaduti durante il corso del periodo passato al fine di valutare l’incremento o il decremento del rischio di arrivare alla mezzanotte.
L’Orologio non rappresenta quindi una situazione puntuale in qualsiasi momento in cui esso venga consultato, ma più una fotografia annuale dello stato della vulnerabilità dell’intero genere umano.

Dal 1947 a oggi, le lancette sono state spostate 26 volte e negli ultimi anni si è assistito a un drastico calo del tempo mancante alla mezzanotte, cioè a un grande aumento del rischio di un evento catastrofico.
La prima ora impostata, nel 1947, fu le 23:53: 7 minuti alla mezzanotte; l’attuale, nel 2024, è l’ora 23:58 e 30 secondi: 90 secondi alla mezzanotte, il valore più basso del tempo finora fissato.
Le motivazioni dietro la conferma dei 90 secondi – già presenti nel 2023 – sono legate al connubio tra rischio atomico, cambiamento climatico, minacce biologiche e tecnologie distruttive.

Non si può essere certi di quale sarà il rischio maggiore per l’uomo, quale sarà l’evento che arrecherebbe maggiori danni all’umanità, tantomeno non vi è alcuna garanzia che la causa scatenante sia singola e separata dal resto delle parti.
La valutazione del rischio deve quindi tenere in conto più fattori e studiare le loro possibili interazioni, per comprendere se il loro agire insieme possa mitigare o aumentare le possibilità di danni irreparabili.

Un progetto di ricerca tra il Center for Crisis Early Warning presso l’Università Bundeswehr Munich, il FutureLab Security al Potsdam Institute for Climate Impact Research e il Ministero Federale degli Affari Esteri tedesco vuole investigare la relazione tra i rischi legati al cambiamento climatico, inerenti i conflitti e di vulnerabilità di ciascuna area del mondo.
Al fine di riassumere i loro studi hanno sviluppato un indice, chiamato CCVI – Climate, Conflicts, Vulnerability Index, che rappresenta la sintesi delle analisi fatte in quella zona per quanto riguarda la sua esposizione ai tre elementi visti sopra.

La struttura dei dati è gerarchica; l’esposizione a ciascuna categoria viene analizzata da un punto di vista multidimensionale: il clima e i conflitti vengono studiati attraverso l’impiego di tre dimensioni, mentre per la vulnerabilità se ne impiegano quattro.
Nell’analisi il rischio viene visto come una funzione del pericolo – possibili danni che possono seguire l’accadere di quell’evento, dell’esposizione e della vulnerabilità; un sistema può quindi essere esposto a possibilità di eventi pericolosi, ma avere tutte le capacità per poterne reggere l’impatto.

In generale, se il pericolo e la vulnerabilità sono bassi, il rischio di incorrere in conflitti o in crisi climatiche diventa più piccolo – ma mai zero.

L’analisi del cambiamento climatico utilizza gli estremi calcolati nell’ultimo anno, quelli accumulati nel corso degli ultimi sette anni e le variazioni delle condizioni climatiche medie degli ultimi dieci anni; i dati provengono principalmente da osservazioni satellitari.
Come detto in precedenza, il rischio climatico si riferisce ai potenziali eventi avversi legati all’interazione tra pericolo climatico, esposizione climatica e vulnerabilità climatica.

I dati relativi ai conflitti vengono principalmente da ACLED – Armed Conflict Location and Event Data Project – e misurano la violenza politica e i disordini civili come esposizione al rischio di conflitto; le dimensioni sono: attuale livello di violenza armata – che mina sia la sicurezza fisica che quella economica, la costanza della violenza armata – la persistenza con cui si ripetono eventi di violenza una volta scoppiato l’inizio degli scontri e, infine, tensioni sociali che possono sfociare in uno scontro armato.
I rischi legati ai conflitti sono anch’essi il risultato dell’interazione tra danni, esposizione e vulnerabilità agli scontri.

 

L’indice di vulnerabilità si basa su quattro elementi principali: quello socio-economico, quello politico, quello demografico e la stessa vulnerabilità ambientale. Lo studio di questo aspetto richiede molteplici punti di vista, poiché vuole determinare in che misura le popolazioni esposte al rischio climatico e a quello di conflitto vengano colpite negativamente.
Nel paradigma CCVI, la vulnerabilità di ciascun luogo, in relazione all’esposizione ai pericoli climatici e di conflitto, determina il rischio degli stessi.

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