Non mancano le eccezioni, come nel caso di Milano. Secondo un’analisi diffusa dal Comune, le 570 nuove realtà nate dal 2012 ad oggi hanno creato un totale di 5.500 dipendenti: un effetto moltiplicatore che si può approssimare in un rapporto di 10 posti generati per ogni startup, peraltro con un tasso di sopravvivenza pari a quasi il doppio di quello registrato dalla media nazionale (l’83%, contro lo standard del 44%). Una leva che si è tradotta, sempre secondo Palazzo Marino, in un fatturato di 43 euro per ogni euro di contributo speso dalla città nel sostegno alle nuove imprese.
Sullo sfondo di Milano e dei pochi casi di successo, però, restano i limiti generali della occupazione nelle nostre startup. Da un lato ci sono i problemi, già evidenziati, di sostenibilità economica e crescita delle imprese dopo i primi round di finanziamento. In un mercato così fragile non si possono immaginare, per ora, carriere sul medio termine.
«Al netto della quantità di lavoro creata credo si debba riflettere sulla qualità dei posti di lavoro che la maggioranza delle startup possono offrire – dice Inguscio – Siamo più nel mondo della gig economy (economia dei lavoretti) che nel mondo della real economy».
Dall’altro, c’è un limite numerico: le startup innovative rappresentano oggi lo 0,4% delle società di capitali attive in Italia. Una nicchia che si espande e inizia a dare i suoi primi frutti. Ma, appunto, una nicchia: «Forse pensare che debbano essere le startup a rimediare ai problemi di disoccupazione sistematica dell’Italia è un’arma di distrazione di massa – dice Inguscio – come non si può chiedere che siano i neo-laureati a pagare le pensioni di tutti gli italiani, così non si può chiedere che siano le neo-aziende a creare tutti i lavori che mancano in Italia».