Cifra tonda. Lunedì Infocamere ha aggiornato il numero di startup innovative iscritte e siamo arrivati a quota 8mila. Ottomila in cinque anni (dalla nascita delle legge) con una curva che ha leggermente perso di velocità negli ultimi dodici mesi e con una quota di investimenti in venture capital che continua a non decollare. Proprio oggi Aifi in collaborazione con Pwc ha distribuito i dati sul venture capital relativi ai primi sei mesi dell’anno. Cresce del 24% il segmento seed/startup con un ammontare investito che passa da 35 milioni a 43 milioni di euro. Il turnaround realizza 3 operazioni, un numero invariato rispetto al primo semestre 2016. “Le statistiche del primo semestre 2017 sono state caratterizzare dalla carenza di mega deal” – ha commentato Francesco Giordano, Partner di PwC Transaction Services – “Il mercato italiano risulta essere comunque molto frizzante con tanti operatori, sia italiani sia internazionali, molto attivi”. Come dire, il trend è positivo ma non c’è il cambio di passo.
Inutile guardare Oltralpe, a Macron e a quei dieci miliardi di euro promessi per trasformare la Francia nella nuova Startup Nation. L’ecosistema italiano è quello che è. E’ indubbiamente vero che in questi anni è cresciuto e si è internazionalizzato. Che fondi stranieri sono arrivati da noi a caccia di occasioni. Che in cinque anni abbiamo avuto exit importanti (poche) e startuppers (molti) che si sono fatti valere vendendo o portando la loro “idea” all’estero. Ma come rileva il ministero dello sviluppo economico parliamo di aziende che guadagnano poco, pochissimo Meno di 300 startup fatturano più di 500mila euro. Se calcoliamo la mediana scopriamo che i ricavi si attestano a 30mila euro all’anno. In pratica, solo il 40% è inutile. E l’86% delle startup italiane è in fase seed, ovvero non è in una fase di sviluppo di poco superiore al business plan.
Le colpe sono molte e non tutte vanno attribuite alla normativa o al governo che, in verità, in questi anni ha fatto moltissimo per far crescere l’ecosistema. Certamente mancano i fondi di venture capital. Mancano investimenti paragonabili a quelli di altri Paesi. C’è troppo seed capital, assegni di piccolo taglio (da 10mila a 500mila euro) utili per i primi passi. Ci sono poche startup finanziate in fase expansion (aziende già mature con un fatturate pronte a ricevere investimenti più importanti per compiere un grande balzo). Ma se parliamo con chi in Europa investe in startup sentiamo raccontarci che in realtà il problema è un’altro.
“Il terreno va fertilizzato – mi ha spieagato all‘evento milanese di Scale It, Barbod Namini del fondo tedesco Holtzbrinck Ventures. – Servono paradossalmente più startup in erba, agli inizi. E per averne servono investimenti a pioggia, magari a perdere per stimolare la crescita. A Berlino è accaduto così e ora siamo competittivi”.
Il rischio è quello di avere startup zombie, che sopravvivono magari oltre i tre anni e poi diventano Pmi piccole piccole. Si accontentano del loro business e non crescono più. Come accade al tessuto della piccola impresa italiana. Da sempre accusato di nanismo. Per una azienda innovativa, questa nanismo potrebbe costare a tutto l’ecosistema moltissimo.