Fallujah e Sirte nel 2016. Mosul la scorsa estate. In mezzo, un’altra dozzina di città irachene e siriane. Fino al colpo definitivo, inflitto poche settimane fa con la riconquista dell’ultimo bastione urbano controllato dall’Isis. La liberazione di Raqqa, infatti, non ha soltanto inflitto il colpo militare decisivo contro lo Stato Islamico. Con essa è anche svanita l’ultima grande fonte di finanziamento del Califfato: quella rete fatta di tasse, estorsioni e sanzioni che nel momento di massima espansione territoriale raccoglieva denaro da 8 milioni di persone in tre Paesi e contribuiva – secondo l’International Centre for the Study of Radicalization (Icsr) – al 44% del Pil dell’Isis. Tra il 2014 e il 2016 il flusso di denaro si è dimezzato.
Al tracollo sul piano militare ne è seguito anche uno economico. L’errore più grande sarebbe però dare lo Stato Islamico per sconfitto. “Nel momento in cui l’Isis si è palesato con il controllo del territorio tre anni fa aveva già una forte disponibilità economica”, ammonisce Lorenzo Marinone, analista per il Centro Studi Internazionali (CeSI). Come a dire, la sconfitta militare è buona cosa ma lo scenario attuale non è troppo diverso da quello di pochi anni fa quando il Califfato urlava al mondo la sua natura parastatale.
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Ed era questa la sua unicità. Nessuna organizzazione terroristica era mai stata in grado di costruire un sistema di welfare, uno Stato sociale e una rete di infrastrutture. Una scelta strategica che agli occhi della popolazione sotto il loro controllo poneva il Califfato al confine tra entità da temere e soggetto statale vero e proprio. Perfetto per imporre tasse agli agricoltori, ai commercianti, ai veicoli in transito fino a vere e proprie estorsioni ad agricoltori e cittadini comuni, ma anche da cui aspettarsi servizi primari quali elettricità e acqua. Un gettito di denaro che nel 2015 l’Icsr stimava essere di circa 600 milioni di euro, addirittura più proficuo del contrabbando di petrolio.
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Buona parte di questo sistema fiscale si basava sulla zakat. Una tassa a cui, come da precetti del Corano, devono contribuire tutti i musulmani e che impone il devolvere parte dei propri profitti a organizzazioni religiose. “È una tassa sul guadagno, non sulla proprietà, e viene pagata per tutto ciò che eccede una determinata cifra calcolata in maniera diversa in tempi diversi e in contesti diversi”, spiega Luca Patrizi, docente di Storia e istituzioni dell’Islam all’Università di Torino. In difficoltà economica durante il conflitto armato, l’Isis è arrivato al punto di legittimare vere e proprie estorsioni come zakat.
Non era però soltanto l’apparato burocratico, sotto forma di tasse ed estorsioni, a garantire enormi entrate all’Isis. Il controllo dei pozzi petroliferi, durato relativamente poco a seguito dell’avvio della campagna militare alleata, generava entrate enormi. La perdita del controllo di Mosul prima e Raqqa poi, e di conseguenza dei giacimenti e delle raffinerie più importanti, costringe ora il Califfato a volgere lo sguardo verso altre fonti di finanziamento. Comprendere come cambierà l’economia dell’Isis significa capire quale forma prenderà quello che è ancora considerato il gruppo terroristico più ricco al mondo. “Una quantità non irrilevante di finanziamenti arrivava già da soggetti privati, localizzati principalmente nei paesi del Golfo”, afferma l’analista del CeSI, “ed è lecito immaginare che avverrà un rafforzamento di questa linea di finanziamenti”. Uno scenario più che plausibile e non nuovo, “già visto con Al-Qaeda dieci anni fa e ancora prima con i mujaheddin afgani nella guerra contro i russi”, conclude Marinone. Questa tipologia di flussi di denaro crea non pochi grattacapi all’antiterrorismo internazionale poiché si tratta perlopiù di una miriade di trasferimenti di contante di piccole o medie entità, quasi impossibili da rintracciare.
Il metodo maggiormente utilizzato per il trasferimento di queste somme di denaro è l’hawala, un sistema ultra millenario nato nel mondo islamico e ancora oggi utilizzato prevalentemente in Medio Oriente e nel Corno d’Africa, ma anche – con variazioni nel nome – in Cina, in India e sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico.. Funziona come una sorta di money transfer, ma a differenza di quest’ultimo, i passaggi di denaro sono in un sistema “parallelo”, che non può essere tracciato dalle istituzioni della finanza internazionale. Il mittente consegna del denaro a un broker hawala il quale a sua volta fornisce al mittente un codice di riferimento per la transazione. Il broker contatta quindi la sua controparte nel paese di destinazione del denaro, comunicandogli l’ammontare e il codice della transazione. Questo secondo broker, infine, consegnerà il denaro al destinatario non appena quest’ultimo comunicherà il codice di riferimento, preventivamente passatogli dal mittente.
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Insieme ai money transfer ufficiali, è lo strumento principale con cui le comunità di migranti all’estero inviano denaro in patria. Italia compresa. Impossibile stabilire anche solo una stima di quanto denaro sia spostato via hawala. Ma il “servizio” è da anni sotto osservazione dell’Unità d’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. Per trasferire denaro dall’altro capo del mondo, sono necessari quattro soggetti almeno, nessuna documentazione e poche ore. Il tempo utile perché i due broker si mettano in contatto. La singola transazione tra i due, infatti, non presuppone alcun passaggio di denaro ed è, naturalmente, esentasse. “Successivamente, i due broker opereranno specifiche compensazioni sulla base dei saldi attivi e/o passivi registrati a fronte dei diversi trasferimenti effettuati nel tempo”, spiega Giovambattista Palumbo, Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche fiscali. E aggiunge: “Tutto questo naturalmente è a rischio riciclaggio, oltre che possibile strumento di finanziamento al terrorismo”. Nel caso di importi multimilionari si mettono di solito in azione più emissari, che seguono strade diverse, per poi ricongiungersi in un unico destinatario.
Spesso gli emissari del broker hawala si appoggiano a banche compiacenti in paradisi fiscali per emettere assegni circolari, rendendo quindi impossibile effettuare controlli sui passaggi di denaro e difficilissimo ricondurre le transazioni alla fonte. A volte, anche a banche con sede in Europa. Una recente operazione anti-hawala coadiuvata dall’Europol ha portato all’arresto di 38 persone e al sequestro di 7 milioni di euro in contanti. Secondo una fonte interna della polizia europea il gruppo, composto da broker e da spalloni per la movimentazione del denaro, era al servizio di diversi gruppi criminali e fatturava circa 2 miliardi di euro all’anno. “Con il sistema degli hawaladar, decine di milioni di persone costituiscono veri e propri spazi offshore, con circuiti economici paralleli che sfuggono ad ogni statistica”, spiega Palumbo. “Altro che paradisi fiscali, siamo di fronte – conclude il presidente di Eurispes – a un’intera economia offshore che muove miliardi di euro, un flusso informale che non passa attraverso i canali bancari e che sfugge alle rilevazioni”.
* Lorenzo Bodrero | irpi.eu