In una Infografica precedente vi abbiamo mostrato il valore Italiano nell’export di auto verso gli Stati Uniti da parte di paesi terzi. Ora, basandoci sulle World Input-Output Tables del 2014 e del 2008, analizziamo l’industria dell’auto americana e il ruolo che i paesi partner degli Usa hanno nelle catene di produzione delle varie aziende delle quattro ruote a stelle e strisce.
La grande maggioranza della produzione dell’automotive canadese e messicana vanti marchi statunitensi quali General Motors e Ford: non sorprende, dunque, che rispettivamente il 40% e il 23,3% del valore aggiunto di queste industrie derivi da sub-prodotti originari degli Usa. Questo numero non è altro che la proporzione del consumo di beni intermedi americani da parte dell’industria dell’auto in Canada e Messico.
Interessante è notare il cambiamento che la catena del valore dell’industria automobilistica statunitense ha subito tra il 2008 e il 2014: all’alba della crisi globale gli Usa producevano 80,9% delle loro vetture con input e sub-prodotti domestici, mentre nel 2014 questa proporzione è calata a 78,8%. Sembra un cambiamento marginale, ma quantificando in termini assoluti parliamo di uno “stanziamento” di valore all’estero equivalente a 9,6 miliardi di dollari. Questo è semplicemente il valore dell’automotive Usa nel 2014 moltiplicato per la proporzione di valore aggiunto “in casa” nel 2008 (come se, in quel lasso di tempo, i fattori di produzione non fossero stati collocati offshore).
Chi ne ha tratto più beneficio? Sicuramente i vicini Messico e Canada, il cui contributo all’industria dell’auto americana è cresciuto rispettivamente addirittura di 6,7 miliardi (+52,6%) e di 1,4 miliardi (+12%) tra il 2008 e il 2014. Da registrare, in questo senso, anche la crescita del contributo della Cina (+6,5 miliardi; +104%) e del Giappone (+3,7 miliardi; +59%) alla catena del valore dell’industria automobilistica Usa.
E’ grazie a numeri come questi che la presidenza Trump è stata in grado di attrarre i cuori e le menti dell’elettorato americano, facendo del conto commerciale degli Usa l’ago della bilancia globale che distingue vincitori da vinti.
La politica minacciata da Trump, infatti, vuole disincentivare le grandi compagnie americane a muovere lavori manuali (i cosiddetti blue collars che tanto preziosi si sono rivelati per la sua elezione) verso i paesi partner del NAFTA ed altri. []
Colpendo Unione Europea, NAFTA, Giappone, Corea del Sud e Cina, questa politica protezionistica andrebbe a turbare addirittura il 17% delle catene del valore delle stesse compagnie americane: si parla di un valore spropositato di $78 miliardi. Tuttavia, è più saggio pensare che sarebbero i consumatori, piuttosto che le aziende, ad accollarsi questo rincaro.
Elaborazione dati Marco Guerra (Ufficio analisi e studi Il Sole 24 Ore).