Nel primo articolo di questa serie abbiamo mostrato una serie di ricerche secondo cui il popolo italiano risulta, da parecchi anni, come uno dei meno tolleranti d’Europa – in effetti di gran lunga il più intollerante verso immigrati e minoranze fra le nazioni sviluppate.
Chiedendo per esempio alle persone se accetterebbero un ebreo come membro della propria famiglia – oppure quante ne hanno in generale un’opinione negativa – gli italiani risultano avere sentimenti di rifiuto molto più spesso rispetto a spagnoli, inglesi, tedeschi o francesi, e non da oggi. Si tratta infatti di un atteggiamento di cui troviamo traccia anche tornando indietro nel tempo, e che per questo non sembra avere legami con eventi più o meno vicini come l’arrivo di stranieri in Italia, la recessione economica o – ancora più di recente – la crisi dei richiedenti asilo.
Questo, è bene chiarirlo, non significa in alcun modo che tutti gli italiani siano intolleranti; solo che rispetto ad altri popolo tendono a esserlo meno. Si tratta di una differenza sottile, ma che è utile sottolineare per evitare generalizzazioni improprie.
Un’altra giustificazione addotta spesso, in particolare quando si parla di immigrazione, riguarda il rapporto fra stranieri e crimine. Secondo alcuni gli immigrati commetterebbero più reati degli italiani, e questa potrebbe essere una ragione che spiega l’atteggiamento negativo nei loro confronti.
Prova sarebbe il fatto che da un lato le denunce di reato riguardano più spesso stranieri che italiani – considerato il loro peso reciproco nella popolazione italiana –, dall’altro che sempre considerando quanti sono i non nativi essi rappresentano una fetta importante dei detenuti in carcere.
A sostegno della prima tesi viene citato spesso uno studio della fondazione Hume, che mostra appunto come per diversi reati la percentuale di denunciati e poi di imputati stranieri ha un peso maggiore rispetto a quanti fra loro vivono in Italia: o per dirla in altri termini, gli stranieri avrebbero in media una maggiore tendenza ad essere denunciati e poi processati.
Questo approccio è però estremamente limitato da un punto di vista scientifico, e in effetti risulta più fuorviante che altro. Le ragioni sono diverse: la principale è che stiamo confrontando gruppi estremamente diversi per età, sesso, condizioni socio-economiche: in genere la popolazione straniera presente è più giovane e parecchio più povera rispetto alla media degli italiani, e queste sono due caratteristiche legate a una maggiore propensione a commettere crimini a prescindere dalla nazionalità. Se per ipotesi i ruoli si invertissero troveremmo probabilmente un risultato opposto, il che ci dice che stiamo usando lo strumento sbagliato per rispondere alla nostra domanda.
Per fare un confronto corretto dobbiamo invece considerare gruppi almeno più omogenei fra loro: in caso contrario sarebbe come sorprendersi nello scoprire che il 18enne di un quartiere povero di Napoli borseggia e un’anziana signora del milanese no.
Lo studio della fondazione Hume, d’altra parte, non è stato sottoposto a peer-review e quindi al vaglio della comunità scientifica, né pubblicato in una rivista specializzata – cosa che naturalmente non ne garantirebbe in sé la veridicità, ma la renderebbe almeno più probabile. Analisi più sofisticate e pubblicate invece su riviste scientifiche internazionali mostrano invece che almeno nel periodo 1990-2003 “l’immigrazione aumenta soltanto l’incidenza delle rapine lasciando inalterati tutti gli altri reati. Poiché le rapine rappresentano soltanto una piccola frazione di tutte le attività criminali, l’effetto sul tasso complessivo di criminalità non è significativamente diverso da zero”.
Altri indizi che indicano come questa non sia la via giusta per capire come stanno le cose arrivano, per esempio, dal rapporto su criminalità e sicurezza a cura di Marzio Barbagli e Asher Colombo del 2010, in cui gli autori hanno ricostruito con i dati la storia della criminalità in Italia tornando indietro di parecchi anni.
Prendiamo gli omicidi: lì gli autori scrivono che “dopo il picco raggiunto nei primi anni Novanta […] l’incidenza di questo reato è continuamente scesa. Il calo è stato particolarmente forte nella
seconda metà degli anni Novanta, ma anche in seguito la tendenza è stata quella di una diminuzione piuttosto accentuata”.
Nel caso dei reati contro il patrimonio come le rapine troviamo “un marcato incremento a partire dagli anni ’70. Nel complesso, ricordano i ricercatori, il volume totale delle rapine è quasi raddoppiato in 25 anni passando da un media di 36 rapine per centomila abitanti del 1984 a un tasso medio nazionale che nel 2009 si è attestato sulle 59 rapine ogni 100.000 abitanti. Tra questi due punti temporali l’andamento del fenomeno è stato altalenante. Analogamente a quanto evidenziato per i furti, il numero delle rapine ha iniziato ad aumentare a partire dalla metà degli anni Ottanta sino a toccare il picco più alto agli inizi degli anni Novanta”.
I furti hanno invece “mostrato un andamento che – sebbene erratico specialmente nelle regioni del Centro-Nord – è stato mediamente decrescente, le rapine hanno visto dopo una repentina contrazione nel corso del primo quinquennio degli anni Novanta, una progressiva espansione, seguita da una brusca flessione negli ultimi tre anni [dal 2007 al 2009]”.
Quest’ultimo è stato anche, curiosamente, il singolo periodo con il maggior numero di nuovi ingressi in Italia, a seguito dell’ingresso della Romania in Europa. Se reati come omicidi, furti e rapine calano persino quando l’intensità dell’immigrazione è al suo massimo storico ipotizzare un legame fra le due cose diventa molto difficile.
In maniera simile, risulta impossibile associare un aumento del crimine con l’arrivo dei richiedenti asilo che ha raggiunto il suo picco negli anni 2014-2016. In questi tre anni risultano sbarcate circa 335mila persone, con un forte calo poi dal 2017 a oggi.
Associare più reati agli sbarchi non è possibile perché in realtà non c’è stato proprio alcun alcun aumento: al contrario, nello stesso periodo tutti i principali reati come omicidi, furti e rapine risultano stabili quando non proprio in calo. L’unica eccezione a questa variazione è costituita da truffe e frodi informatiche – reato però che per essere associato ai richiedenti asilo richiede una certa dose di fantasia.
Se non i reati, che siano allora i detenuti? Come mai così tanti di loro sono stranieri? I problemi di questa tesi sono in buona parte simili a quelli che valgono per la questione reati: ha poco senso confrontare ricchi e poveri, giovani e vecchi come se si comportassero allo stesso modo – che siano italiani o meno.
E infatti, come ha spiegato il docente di economia Pinotti a Famiglia Cristiana, la differenza nel numero di detenuti “riflette anche il minor accesso degli stranieri agli istituti alternativi alla detenzione, come gli arresti domiciliari. In particolare, tali opzioni sono sostanzialmente precluse agli stranieri irregolari”.
Nel 2011, ricorda Pinotti, “il 30,7% degli italiani condannati a pene detentive ha beneficiato di misure alternative, mentre per gli immigrati questa percentuale scende al 12,7%. Questo perché spesso gli immigrati spesso non soddisfano le condizioni richieste per le misure alternative al carcere, come avere un lavoro regolare, un domicilio, una famiglia in grado di ospitare l’individuo”.
L’articolo ricorda poi che “gli stranieri hanno una condizione socioeconomica mediamente più bassa: pagarsi un buon avvocato o avere quello di ufficio fa, in alcuni casi, la differenza. È la stessa ragione per cui, negli Stati Uniti, i poveri e gli afroamericani sono in percentuale particolarmente alta tra i condannati a morte”.
Anche gli argomenti su reati e detenuti, dunque, non sembrano in grado di spiegare come mai gli italiani hanno in media un atteggiamento più negativo verso immigrati e minoranze. Né d’altronde potrebbero: non è che gli immigrati siano tutti santi o non commettono mai crimini – lo fanno in Italia come altrove. Quello che non si capisce è come mai solo nel nostro paese dovrebbero arrivare a un livello tale da generare una reazione tanto estrema. Se parlassimo della Germania potrebbe forse la cosa potrebbe avere un qualche minimo fondamento, ma come mai allora in Spagna non succede nulla del genere?
Eliminate allora queste cause, la domanda resta: come si spiega la poca tolleranza degli italiani, anche rispetto a paesi a noi tutto sommato molto simili come appunto la Spagna? La domanda è difficile è non esiste una risposta ovvia. In parte potrebbe essere un problema di come essi vedono il mondo: secondo una ricerca Ipsos fra le nazioni sviluppate gli italiani sono il popolo con la maggiore distanza fra percezione e realtà. Essi tendono a sopravvalutare molto il numero di stranieri o la presenza di musulmani, per esempio, al contrario di tedeschi o svedesi la cui visione della realtà si avvicina molto di più al vero.
Se questo sia dovuto all’istruzione, ai media, o a chissà che altro resta tutto da capire: ma certo il problema resta fondamentale.