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economia

Mito e realtà dei “green jobs”. Chi sono, quanti sono, chi li vorrà

 

 

 

Il mantra è che le professioni del futuro dovranno essere sempre più green, più “amiche dell’ambiente” e con loro i lavoratori che personificheranno queste posizioni. Secondo l’ultimissimo rapporto GreenItaly di Unioncamere, in Italia nel 2018 il 13% degli occupati, pari a 3,1 milioni di lavoratori, rientrerebbero nell’ambito dei Green jobs (dato proveniente dall’indagine Istat sulle forze di lavoro, sia nel pubblico che nel privato). Secondo le previsioni del sistema Excelsior, che sottopone alle aziende private dei questionari sulle loro intenzioni di assunzione dei prossimi anni, nel 2019, il numero di contratti di attivazione previsto dalle imprese che riguardano questo settore è pari a circa 521.747 unità.

 

Solo un Green job su cinque tuttavia è collocato nel meridione, un altro quinto nelle regioni del centro, mentre la metà esatta sarà al nord. La polarizzazione è ancora più evidente esaminando le cose a livello regionale e provinciale. Due regioni da sole rappresentano un terzo delle professioni green del Paese: la Lombardia concentra il 21,3% delle posizioni, seguita dal Lazio con un altro 10,3%. L’analisi a livello provinciale accentua la polarizzazione città-provincia. Al primo posto troviamo Milano, con 74 mila contratti relativi a Green jobs previsti nel 2019: il 14,2% dei nuovi contratti del paese. Segue nella lista Roma, dove la richiesta di questi lavoratori raggiungerà quasi 52 mila nuove attivazioni, al terzo posto si colloca Torino, con quasi 25 mila nuovi contratti, e al quarto Napoli con 24 mila.

 

Nel rapporto non si fa riferimento diretto alla tipologia di salario dei lavoratori, si precisa soltanto che nel 2019 il 49,2% delle occupazioni green sarà a tempo indeterminato, una percentuale doppia rispetto al resto delle professioni, il 35% riguarderà laureati, contro il 9,8% del resto dei posti di lavoro, un quarto sarà rivolto a persone con meno di 30 anni, la stessa percentuale del resto delle professioni. Solo un nuovo green job su cinque riguarderà una persona che già lavora nella medesima azienda.

 

Davanti a questo dato tutto sommato incoraggiante, emerge una domanda: a chi è richiesta prevalentemente questa attitudine green?  Considerando che in generale è richiesta a tutti, quelli per i quali sembra praticamente indispensabile sono tutti i gruppi di livello alto e di livello intermedio, dai dirigenti agli operai specializzati. Ai primi posti troviamo i tecnici della produzione e preparazione alimentare, gli ingegneri elettronici e in telecomunicazioni, gli ingegneri civili i tecnici meccanici, gli installatori di linee elettriche, riparatori e cavisti, i tecnici della gestione dei cantieri edili , gli specialisti in contabilità e problemi finanziari, gli esperti legali in imprese o enti pubblici i, tecnici della sicurezza sul lavoro e i meccanici e montatori di apparecchi termici idraulici e di condizionamento.

 

La domanda di green jobs si differenzia insomma per un più elevato livello dei titoli di studio richiesti e per la specificità delle competenze. Le conoscenze assumono quindi nel caso della green economy una maggiore centralità. Ciò trova conferma anche nella maggiore esigenza di formazione interna ed esterna rilevata (44,6% contro 36,4%).

Ma quanto costa in termini di soft skills entrare nelle fila di questi Green jobs? Le “fabbriche” – di prodotti o di servizi che siano – richiedono lavoratori green sempre più simili a macchine super efficienti: flessibili, adattabili, capaci di lavorare in gruppo, ma anche in autonomia, e rapidi nel risolvere problemi.  La fantomatica “flessibilità” (rispetto a che cosa non è chiaro) sono attitudini ritenute molto importanti per il 77,4% dei nuovi contratti relativi a green jobs, contro il 61,2% caratteristico delle altre figure professionali.  Infine, per circa il 47,5% delle professioni “verdi” programmate in entrata è importante il possesso della capacità comunicativa scritta e orale in italiano (contro 34,4% rilevato per i nuovi contratti non green). Sorprendentemente solo il 28% dei datori di lavoro considera imporntante per i prossimi assunti una buona capacità comunicativa scritta e orale in lingue straniere, anche nell’insieme delle professioni ci si ferma al 15%, un lavoratore su sei.