Se nel 2023 il 7,1% degli europei ha svolto in media più di 49 ore di lavoro settimanali, non si può dire lo stesso degli italiani, che tale media l’hanno abbondantemente superata, raggiungendo la quota di 9,6% e finendo tra i Paesi più stacanovisti d’Europa. Questo è quanto definito da uno degli ultimi rapporti Eurostat. In questa vetta (di certo non auspicabile) la compagnia non ci manca. Tra chi esagera con il monte ore dei Paesi UE troviamo infatti la Grecia, che registra la quota più alta di lavoratori con orari prolungati (l’11,6% di greci sono stacanovisti). La segue Cipro (10,4%) e la Francia (10,1%). I tassi più bassi, invece, sono stati registrati in Bulgaria (0,4%), Lituania e Lettonia (1,1% ciascuno).
Bisogna però fare delle distinzioni. Innanzitutto, sono i lavoratori autonomi del vecchio continente ad essere più stacanovisti (29,3% del totale) rispetto ai dipendenti (che registrano un 3,6%). Inoltre, l’orario di lavoro prolungato era più comune tra gli agricoltori europei, gli operatori della silvicoltura e quelli della pesca (27,5% di tutti gli operai). A loro fanno seguito i dirigenti con un 21,9%. Tutti gli altri gruppi occupazionali hanno registrato una media del 7,3%.
Guardando al nostro Paese, sono i manager ad occupare la vetta degli stacanovisti, con una media del 40,5% di lavoratori e lavoratrici che operano orari di lavoro prolungati. Una percentuale decisamente alta, ma che non si distacca troppo dagli operatori dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca, che raggiungono una quota pari al 36,3%. Poi, anche su tali numeriche, bisognerebbe mettere la lente d’ingrandimento. Ad esempio, in Italia le donne sono meno stacanoviste rispetto agli uomini. Sulla media nazionale di 9,6%, i lavoratori che svolgono orari prolungati costituiscono il 12,9%, le lavoratrici il 5,1%. Lo scarto è netto anche laddove si analizzino le classi di attività. Quando, come detto, i manager quantificano una media nazionale estremamente alta (del 40,5% di stacanovisti), il 45,2% sono lavoratori, il 29% lavoratrici.
Per capire meglio il gender gap nel monte ore si potrebbe tenere presente lo studio di LHH che va a testimoniare un aumento dell’occupazione femminile nel corso del tempo, ma che resta insufficiente per colmare le differenze occupazioni su scala nazionale. Per capirci, nel 2022 l’occupazione femminile ha superato il 51%, contro il 69% degli uomini. L’analisi si sofferma poi sul calcolo della RAL annuale in Full Time Equivalent (Fte) del settore privato, escluse sanità e istruzione privata. C’è poi, l’Osservatorio JobPricing che nel 2022 ha registrato un pay gap pari all’8,7%. Notevole, sicuramente, ma tale percentuale raggiunge persino il 9,6% laddove si consideri la RGA (Retribuzione Globale Annua, comprensiva cioè̀ della parte variabile). Dunque, un gap di 2.700 euro lordi sulla RAL e circa 3.000 euro sulla RGA. Quindi, perché una donna dovrebbe lavorare di più se viene pagata meno? Infine, in questo scenario, si potrebbe dire che le donne sono meno stacanoviste perché hanno per lo più ruoli che non prevedono un monte ore prolungato. Infatti, secondo un recente studio dell’Istituto di statistica europea, l’Eurostat, le donne rappresentavano la quota maggiore per ciò che riguarda gli impiegati di supporto (65,8%) o ancora addetti a servizi e alle vendite (63,5%). Inoltre, se si guarda ad una classificazione più dettagliata (quella ISCO), le donne nell’Unione Europea rappresentano la stragrande maggioranza degli occupati in professioni specifiche, tra cui gli assistenti all’infanzia e agli insegnanti (92,6% del totale degli occupati in questa professione nel terzo trimestre del 2023), le segretarie (89,3%), gli insegnanti di scuola primaria e della prima infanzia (88,2%), gli infermieri e gli ostetrici (87,5%) e gli addetti alle pulizie domestiche, alberghiere e d’ufficio (86,5%). Solo il 34,7 % dei manager, nel 2023, erano donne. Una ogni tre uomini.