Tre bambini di 4-5 anni ogni 50 non vanno alla scuola materna, cioè entrano in prima elementare senza mai aver frequentato la scuola. I bambini fuori dal sistema di istruzione sono oggi il triplo di quanti erano nel 2014: il 6% contro il 2,1% di dieci anni fa.
La pandemia non ha inciso sulla scelta di non mandare i figli alla scuola materna: il trend era già in leggero calo da anni. Nel 2019 ci andava il 95,8% dei bambini, nel 2020 il 96% e nel 2021 il 95,9%. Notiamo anche una maggiore partecipazione dei bambini alla scuola materna nel meridione, mentre è al nord e al centro che la frequenza è relativamente bassa. Nel 2021 l’Unione Europea ha previsto l’innalzamento al 96% della quota di bambini tra 3 anni e la scuola primaria obbligatoria che entro il 2030 a livello Ue dovrebbe partecipare all’educazione e cura della prima infanzia.
Già nel 2014 il 5% dei nati al nord non frequentava alcuna scuola prima della prima elementare, mentre al sud e nelle Isole le percentuali erano prossime allo zero. Nel 2023 non frequenta mai la materna l’8% dei bambini lombardi, il 5,7% dei piemontesi, il 5,1% dei liguri, il 7% dei veneti, il 5,8% dei bambini che vivono in Trentino-Alto Adige, il 6% dei friulani, il 7,3% degli emiliani. Percentuali simili, intorno al 5% si hanno nelle regioni centrali – Toscana, Umbria, Marche – mentre il Lazio vede la percentuale più elevata d’Italia di bambini fuori dalla scuola materna, il 12%. del totale dei 4-5 enni residenti.
Scendendo verso sud le percentuali salgono. Il 3,7% dei bambini abruzzesi non frequenta la scuola materna, il 54,% dei molisani, l’1,3% dei campani, il 2,7% dei pugliesi, il 3% dei lucani e dei calabresi, il 5% dei bambini siciliani e il 3,8% dei sardi.
Le 10 province dove la frequenza è più bassa sono, nell’ordine: Roma, Parma, Prato, Gorizia, Latina, Pavia, Milano, Reggio Emilia, Lodi, Treviso.
Questi dati sono contenuti all’interno dell’ultima mastodontica rilevazione BES di Istat, sul Benessere dei Territori, pubblicata nella seconda metà del 2024. Ricordiamo comunque che la scuola materna non è obbligatoria per legge, ma solo un’offerta per i bambini dai 3 ai 6 anni. L’orario è stabilito in 40 ore settimanali, con possibilità di estensione fino a 50 ore. Le famiglie possono richiedere un tempo scuola ridotto, limitato alla sola fascia del mattino, per complessive 25 ore settimanali.
Quanto gioca l’obbligo vaccinale
Sicuramente il tema della vaccinazione gioca un ruolo in questi numeri dato che il figlio di una famiglia che decide di non vaccinarlo è escluso (magari suo malgrado) dall’istruzione pubblica. Il 5% dei bambini di 3 anni non è vaccinato (dati ISS) contro morbillo, parotite e rosolia, contro il tetano, l’epatite B, la difterite e nemmeno contro la poliomielite. Per alcune regioni quindi la mancata partecipazione alla scuola materna si spiega quasi del tutto, mentre in altri casi il gap resta.
Come è noto la vigente legge n. 119 del 2017 impone l’obbligo di dieci vaccinazioni per i minori fino ai sedici anni. Ma se a partire dalla scuola elementare (primaria) il giovane può comunque frequentare la scuola, con una sanzione amministrativa di natura pecuniaria fino a 500 euro, prima dei sei anni vige l’esclusione dal percorso di istruzione, che appunto non è obbligatorio per legge. La sentenza 5 del 2018 della Corte costituzionale ha ritenuto questa legge non in contrasto con la Costituzione. Anche le scuole materne private non paritarie devono adempiere alla medesima legge.
Asili parentali: non abbiamo dati ufficiali
Ci sono poi gli asili parentali, che sfuggono a questa rilevazione di Istat, che si basa su rilevazioni del Ministero dell’Istruzione e del Merito. I genitori scelgono l’istruzione parentale, cioè di educare i figli a casa. Fino ai 6 anni, dato che la scuola materna non è obbligatoria, non serve nessuna burocrazia, anche se spesso sono servizi gestiti da cooperative. A partire dalla scuola primaria, chi decide di educare i figli a casa deve rilasciare al dirigente scolastico della scuola più vicina una dichiarazione, da rinnovare anno per anno, sulla capacità tecnica o economica di provvedere all’insegnamento parentale. Il dirigente scolastico ha il dovere di verificare la fondatezza di quanto dichiarato dai genitori.
Il minore sostiene ogni anno un esame di idoneità all’anno scolastico successivo in qualità di candidato esterno presso una scuola statale o paritaria, fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione. La scuola che riceve la domanda di istruzione parentale è tenuta a vigilare sull’adempimento dell’obbligo scolastico dell’alunno. A controllare non è competente soltanto il dirigente della scuola, ma anche il sindaco del comune di residenza.
Quanti erano andati al nido?
Al contrario si osserva che la partecipazione all’asilo nido segue un trend opposto: al nord la frequenza è molto più elevata che al sud, sebbene con percentuali molto più basse. Il 18% di chi vive a nord-ovest frequenta il nido, il 24% di chi vive a nord-est, il 23% di chi abita nelle regioni del centro e l’8,5% di chi vive nel meridione. Il motivo in questo caso è che al Sud vi sono molti meno asili nido che al nord. L’Unione Europea avrebbe stabilito che almeno il 33% dei bambini con meno di tre anni dovrebbe trovare posto al nido, un limite codificato anche nella normativa nazionale con il decreto legislativo 65/2017.
Oggi in Italia siamo a 30 posti ogni 100 bambini (erano 22 su 100 bambini i posti nel 2013), quindi non siamo lontani dalla soglia, anche se la soglia stessa è terribilmente scoraggiante, perché significa che due famiglie su tre rimangono escluse. Esistono gli asili nidi familiari che in parte riescono a sopperire al bisogno dei genitori di lavorare entrambi e al contempo poter avere dei figli, ma i costi sono più elevati dei nidi comunali.
Nel 2023 sono 12 le regioni italiane al di sopra della soglia del 33%, ma il Sud resta sotto. La Campania, che è la regione con la percentuale più alta di bambini iscritti alla scuola materna ha la più bassa percentuale di posti al nido. Solo il 13% dei nati in Campania può trovare posto, e la stessa percentuale si riscontra in Sicilia. C’è posto negli asili nidi solo per il 15% dei nati in Calabria, per il 20% dei nati in Puglia, per il 22% dei lucani e dei molisani, per il 28% degli abruzzesi. I più fortunati sono gli umbri, perché trova posto al nido il 46% dei nati. Seguono l’Emilia-Romagna e la Valle d’Aosta, che offrono 43 posti per 100 nati, la Toscama che ne garantisce 40 su 100, il Friuli-Venezia Giulia e il Lazio che ne hanno 38 per 100 bambini, la Lombardia 36, la Sardegna 35, Veneto e Liguria il 33,5% e il Piemonte il 32%.
Un problema centrale in ogni caso sono i costi. Non è detto che avere più posti al nido significhi più famiglie che possono permetterselo. Servono più asili nido comunali e statali, come le scuole materne pubbliche, che sono gratuite tranne i costi dei pasti e dei trasport. Secondo un’indagine di AltroConsumo, la retta media per una famiglia con un Isee di 30 mila euro si aggira sui 500 euro per i nidi comunali a Milano Firenze e Torino, poco meno a Firenze. Per i privati saliamo anche al doppio.
Per approfondire.
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