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Perché l’allarme di Lancet sui dati sanitari italiani pone un problema serio

Il sistema di raccolta e gestione dei dati sanitari in Italia non funziona. È sostanzialmente questo il senso di un editoriale apparso su The Lancet Regional Health Europe, rivista del gruppo Lancet che si occupa di medicina e questioni sanitarie con un focus sul vecchio continente. Nulla che non fosse già noto, in realtà.

Era stato infatti l’esecutivo di Mario Draghi a destinare, nell’ambito del Pnrr, 1,67 miliardi di euro per potenziare il Fascicolo sanitario elettronico e renderlo utilizzato su tutto il territorio nazionale. Ad oggi, però, secondo il monitoraggio realizzato da OpenPolis, solo il 9,7% di questi fondi è stato effettivamente speso. Non solo. Ad agosto 2024, secondo i dati del ministero della Salute, questo strumento veniva impiegato dal 94% dei medici di base e dal 76% degli specialisti in forza alle aziende sanitarie. Mentre, secondo la Fondazione Gimbe, i documenti messi a disposizione sul Fse sono solo il 79% di quelli previsti dalla legge.

Il tema non è soltanto quello di consentire ai cittadini di scaricare dalla rete i risultati di un esame diagnostico, senza dover necessariamente tornare in ospedale o nella struttura in cui è stato effettuato. La sfida è soprattutto quella di rendere questi dati interoperabili. Ovvero di fare in modo che un operatore basato a Cologno Monzese possa leggere i dati caricati da un collega che si trova a Castellammare di Stabia.

Non si tratta, ovviamente, di istituire una sorta di Grande fratello sanitario. Ma in un paese in cui, secondo dati Agenas presentati poco più di un mese fa, nel 2023 sono state 668mila le persone ricoverate in una regione diversa da quella di residenza, rendere interoperabili i dati sanitari evitrebbe ai pazienti di ripetere esami diagnostici. E magari di ridurre quei 2,88 miliardi di costo, dato sempre aggiornato al 2023, relativi alla cosidetta mobilità sanitaria. Senza parlare di quanto poter contare su dati raccolti in maniera uniforme renderebbe più semplice il lavoro degli epidemiologi.

L’editoriale di Lancet Regional Health punta però il dito sull’autonomia differenziata, sostenendo che «decentralizzerà ulteriormente la governance sanitaria, rendendo più profonde la frammentazione e le disparità tra le regioni anziché favorire una raccolta e una condivisione armonizzata dei dati». Una questione che in realtà dipenderà molto da quelli che saranno i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero lo standard minimo cui saranno tenute le regioni che chiederanno più autonomia in ambito sanitario.

Certo è che in un paese con una così significativa mobilità sanitaria, l’interoperabilità dei dati sanitari resta un tema centrale. È un pezzo fondamentale di quella transizione digitale della sanità che dovrebbe consentire un risparmio tra il 5 ed il 10% della spesa in un settore per cui la legge di bilancio 2025 ha stanziato oltre 136 miliardi di euro.

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