Oggi, 22 aprile, si celebra la giornata mondiale della Terra, ricorrenza arrivata ormai a festeggiare il cinquantesimo anno da che, nel 1970 appunto (per la precisione il 18 gennaio), il New York Times pubblicò a tutta pagina un annuncio per sottolineare come fosse giunto il momento di dedicare un giorno del calendario al nostro pianeta.
Nata prevalentemente come lotta contro l’inquinamento (nell’annuncio sul NY Times si faceva infatti riferimento allo smog arrivato allo Yosemite Park ed ai rifiuti scaricati nelle acque del fiume Hudson), l’iniziativa ebbe una risonanza piuttosto elevata che riuscì a coinvolgere oltre venti milioni di persone e che portò alla seguente emanazioni di diversi leggi per l’ambiente come il Clean Water Act per la qualità dell’acqua e l’Endangered Species Act, volta a preservare le specie in pericolo di estinzione.
A distanza di cinquant’anni, e con una situazione decisamente peggiorata rispetto ad allora, vale la pena ricordare di avere maggiore consapevolezza del pianeta su cui tutti siamo ospiti di passaggio, visto che, molto spesso, sembriamo dimenticarcene con troppa facilità.
Per contribuire, anche noi di Infodata abbiamo pensato di rendere omaggio alla Terra a nostro modo, ovvero avvalendoci dei dati, sia riproponendo un paio di spunti di riflessione pubblicati in passato sia con alcuni contenuti inediti dedicati appunto all’ambiente.
Considerando che il tema centrale di quest’anno per l’Earth Day sarà il clima, abbiamo deciso di proporvi un esempio di come si possono utilizzare i numeri per monitorare i rischi collegati al cambiamento climatico e a tutte le conseguenze ad esso associate.
Nello specifico, abbiamo graficato una delle passate edizioni del Cimate Risk Index – sviluppato annualmente da GermanWatch – e per il quale, relativamente alla pubblicazione del 2017, su Data World sono stati resi disponibili nella loro versione integrale.
L’indice in questione è infatti uno strumento che serve a stimare il livello di rischio a cui un paese è sottoposto in virtù dei cambiamenti climatici, declinato secondo quattro fattori che, combinati e pesati opportunamente, contribuiscono ad un valore con cui è possibile osservare quali siano le nazioni maggiormente esposte.
Per la precisione, le quattro variabili prese in esame sono il numero di vittime attribuibili a fattori atmosferici, lo stesso numero riparametrato su centomila abitanti, l’ammontare delle perdite in potere di acquisto (purchasing power parity) e le perdite relazionate al prodotto interno lordo (gross domestic product).
È da sottolineare come lo score complessivo sia da intendere come una media tra i ranking delle quattro voci interessate, pertanto più basso è il valore dell’indice più alto sarà il valore del rischio dovuto appunto a “posizioni” di rilievo nelle varie graduatorie.
Nel grafico, oltre a riportare i primi dieci paesi per ognuno dei quattro fattori, il valore del Climate Risk Index è stato associato ad un gradiente che spazia dal rosso per i valori più a rischio fino al verde associato alle realtà esposte in maniera minore alle conseguenze del cambiamento climatico.
In questa fotografia collegata al report del 2017 e riferita all’anno 2015, oltre ai ranking, come anticipato, sono indicati anche i valori dei quattro fattori analizzati avendo così maggior contesto numerico relativamente alle cause del rischio.
Nello specifico, spiccano gli oltre 4300 decessi registrati in India dovuti principalmente alle inondazioni verificatesi a seguito di piogge anomale fuori stagione, così come la situazione complessiva della Repubblica Dominicana che compare al primo posto sia per le morti parametrizzate sui centomila abitanti (oltre 43), sia per quanto riguarda le perdite segnalate in relazione al prodotto interno loro (77,3%) dovute all’uragano Erika che ha colpito il paese sul finire del mese di agosto, paralizzando soprattutto la rete di trasporti.
Complessivamente comunque, nello scenario raffigurato nel report, i primi dieci paesi maggiormente colpiti sono Mozambico (score 12,2), Repubblica Dominicana (13,0), Malawi (13,8), India (15,3), Vanuatu (20,3), Myanmar (20,8), Bahamas (22,8), Ghana (23,3), Madagascar (23,3) e Cile (25,2).
Curiosità climatiche
Rimanendo sul tema principale dell’Earth Day di quest’anno, ma spostandoci più sul “forse non tutti sanno che…”, ripercorriamo quali siano i punti più estremi dal punto di vista climatico (link ad articolo ) per i vari continenti con il grafico seguente.
Il nostro pianeta è infatti davvero eterogeneo dal punto di vista delle temperature e, come sottolineano i dati pubblicati su Wikipedia, l’escursione termica da intendersi a livello mondiale e nell’intero periodo di misurazioni di cui abbiamo traccia tra la zona più calda e quella più fredda è poco meno di 147 gradi.
I record spettano rispettivamente a Furnace Creek in California dove nel 1913 vennero registrati oltre 56 gradi e a Base Vostok nel pieno dell’Antartide in cui la temperatura rilevata toccò nel 1933 il minimo storico di -89 gradi.
Complessivamente, il record per quanto riguarda le “massime” non è così estremo come per il caso delle “minime”: se infatti la maggior parte dei valori di punta dei continenti è superiore ai 48 gradi di Atene, per quanto riguarda le misurazioni sotto zero negli altri continenti la seconda in graduatoria (Oymyakon) è distaccata di quasi 22 gradi.
Ad ogni modo, specialmente per il costante surriscaldamento a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, i numeri a cui siamo stati abituati nel corso del tempo saranno probabilmente destinati ad aumentare drasticamente, e come anche suggeriscono diversi climatologi, è “estremamente probabile” che l’influenza umana sia stata la causa principale di quanto osservato nel XX secolo.
Il disgraziato intervento dell’uomo
Come se non bastasse la “quotidianità” con la quale stiamo progressivamente alterando le condizioni climatiche (basti pensare all’inquinamento legato alle emissioni di gas serra nelle loro varie forme), molto spesso ci sono circostanze per le quali non c’è alcun tipo di attenuante a cui aggrapparsi.
Una delle fotografie più lampanti e, in un certo senso anche più iconografiche, è la deforestazione che si sta compiendo in Amazzonia, regione che da sempre viene considerata il polmone verde della Terra.
Qualche mese fa abbiamo documentato (link all’articolo) quanto sta avvenendo sulla base dei dati messi a disposizione da parte del progetto brasiliano PRODES che, per quanto riguarda la propria porzione amazzonica, utilizza le immagini satellitari per monitorare l’evolversi del fenomeno e grazie al quale è stato possibile ricostruire quanto accaduto nel decennio 2009-2018.
Premesso che in questa analisi si considera come deforestazione qualunque attività legata alla completa rimozione della copertura forestale indipendentemente dall’utilizzo che ne possa poi venire fatto in seguito, benchè i numeri siano inferiori rispetto all’inizio del nuovo millennio, i dati relativi agli ultimi tre anni censiti segnalano un trend in crescita piuttosto allarmante.
Dal 2016 al 2018 infatti, sono stati deforestati più di ventunomila km chilometri quadrati di foresta senza mai scendere sotto i settemila annui quando invece negli anni precedenti si era assistito ad un progressivo assestamento attorno ai “soli” cinquemila chilometri.
Specialmente nell’ultimo anno, le immagini più note ritraggono il polmone verde vittima di numerosi incendi che, drammaticamente, ricordano molto quanto accaduto in Australia sebbene si partisse da un contesto ambientale e socio-economico abbastanza differente.
Come noto, a partire dallo scorso settembre, la nazione australiana è stata martoriata da un’ondata di incendi boschivi (la cui natura più o meno dolosa è stata a lungo dibattuta) senza precedenti che hanno devastato regioni intere, finendo con il causare anche diverse vittime tra la popolazione.
I numeri di questa catastrofe parlano di più di cinque milioni di ettari di foreste bruciate, molte delle quali situate nell’ara del Nuovo Galles del sud, noto per essere l’habitat di circa il 30% dei koala australiani, la maggior parte dei quali sono stati sterminati a seguito degli incendi.
Nell’infografica realizzata in riferimento ai dati raccolti fino alla metà dello scorso dicembre (link articolo) è possibile monitorare la distribuzione degli incendi con un focus particolare sulle area del Queensland e del Nuovo Galles del sud.
Verso un futuro di sovrappopolazione
Se è vero che siamo la causa principale di molti degli stessi mali di cui ci lamentiamo, in primis il cambiamento climatico, è altrettanto che vero che salvo un miracoloso cambio di rotta, le prospettive potrebbero non essere le più rosee.
Il crescente livello di emissioni di gas serra, indipendentemente dall’origine (sistemi di riscaldamento, veicoli, industria, ecc…) è sempre e comunque riconducibile all’intervento umano e come è stato ribadito anche dall’Organizzazione mondiale metereologica delle Nazioni Unite (WMO), nonostante gli accordi di Parigi non è stato rilevato alcun segnale di abbassamento, come dimostrato dal nuovo livello record fatto registrare nel 2018.
Se i climatologi dell’Onu hanno stimato che servirebbe un taglio drastico delle emissioni entro i prossimi dieci anni perché sia ipotizzabile frenare l’aumento delle temperature globali di 1,5 gradi, deve fare riflettere come il continuo aumento della popolazione mondiale potrebbe avere una rilevanza assoluta nella corsa ai ripari per la tutela dell’ambiente.
Secondo i calcoli, la crescita globale della popolazione si assesta attorno all1,1% equivalente a circa 75 milioni annui con stime che prevedono il raggiungimento degli otto miliardi complessivi entro la metà del 2025 e dei dieci verso il 2083, dati non certo incoraggianti se assumiamo che sia appunto l’uomo la causa numero dei disordini climatici.
Per avere un’idea dell’aumento demografico nel tempo, abbiamo pensato di presentare l’evoluzione dal 1955 al 2035 di tutte le città che nel 2018 avevano almeno trecentomila abitanti a partire dai numeri messi a disposizione dalle Nazioni Unite.
Nei grafici che seguono, sono presentate – sia in mappa che nella rappresentazione a bolle – tutte le città censite di cui si può vedere l’evoluzione nel tempo premendo sul tasto play (►)che lancerà un progressivo salto temporale di cinque anni (o alternativamente spostando il cursore).
Contemporaneamente il grafico ad sottostante, sempre in relazione all’anno esaminato, mostra il numero di città aventi più di trecentomila abitanti in riferimento alle varie nazioni del pianeta, con la possibilità di poter selezionare il rettangolo di interesse al fine di effettuare uno zoom in corrispondenza del paese selezionato.
La situazione al 1955, come preventivabile, era piuttosto diversa rispetto a quella prevista per il 2035 come dimostrano le 52 città americane contro le 36 cinesi degli anni ’50 che dovrebbero invece diventare poco meno del triplo per gli Stati Unii (144), arrivando addirittura alle 424 della Cina.
In questa proiezione sarebbe l’India la seconda nazione dal punto di vista della numerosità di città con oltre trecentomila abitanti, toccando quota 181 a cui poi, dopo gli USA, dovrebbero fare seguito Russia (65), Brasile (59), Messico (54), Nigeria (54), Indonesia (33) ed Italia (32).
Prendendo in esame invece le singole città, partendo dalla coppia di testa del 1955 composta da Tokyo (13,7 milioni di abitanti) e New York (13,2), l’evoluzione prevista dovrebbe condurci verso uno scenario in cui al 2035 la città più popolosa potrebbe essere Delhi con oltre 43 milioni di persone seguita Tokyo (36), e Shanghai (34,3).